USA, il coronavirus come una bomba a mano contro Trump
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In una campagna elettorale in pieno svolgimento e nonostante i pubblici inviti alla calma fatti ai rivoltosi afroamericani, ai democratici resta in mano soltanto quella rivolta e il coronavirus da lanciare come bombe a mano addosso a Trump, da qui al prossimo mese di novembre, dopo la più grande e sfacciata caccia al presidente in carica mai vista in America, e un mobbing politico internazionale a dir poco sconcertante, una caccia acchetatasi soltanto dopo il fallito tentativo di impeachment del presidente voluto dai democratici sulla vicenda dell’Ucrainagate
– Enzo Ciaraffa –
Durante la campagna elettorale per le presidenziali americane del 2016 nella quale si proponevano agli elettori Hillary Clinton, per il partito democratico, e l’imprenditore Donald Trump, per i repubblicani, al contrario della grande maggioranza di sondaggisti, di media e osservatori con tanto di pedigree, sul piccolo mensile locale che allora dirigevo mi dichiarai – mettendolo nero su bianco – dubbioso della vittoria della Clinton. Ciò non perché fossi un indovino. La vedevo solo come da modesto osservatore di quanto accadeva negli Stati Uniti dove la campagna elettorale della candidata democratica si era, a mio avviso, eccessivamente appiattita sul presidente uscente Barack Obama, dando corpo ad un paradosso: un presidente nero che faceva da padrino ad una candidata capace di parlare soltanto ai fricchettoni della East Coast. Insomma Hillary avrebbe potuto perdere le elezioni perché era la riproduzione perfetta di Matteo Renzi e del PD italiani, che in quel periodo si dicevano di sinistra e popolari mentre in realtà facevano la politica dei banchieri e delle oligarchie europee. Renzi, infatti, fu mandato a casa dagli italiani un mese dopo la sconfitta della signora Clinton.
Trump, lo zoticone, il populista, il sovranista com’era definito, aveva invece capito che bisognava dar voce all’America rurale e dei ceti medi, delusa dalla politica durante gli otto anni di regno di Obama alla Casa Bianca. Non a caso il Tycoon vinse perché riuscì ad espugnare le roccaforti democratiche di Florida, Nord Carolina, Ohio e Wisconsin, nonostante avesse avuto contro l’universo mondo, alcuni capoccia dello stesso partito e perfino il papa.
Ebbene, non appena si ebbe la certezza che il Tycoon era diventato il 45° presidente stelle e strisce, in alcune città americane scoppiò la protesta degli sconfitti democratici al grido di “Not My President”, proteste molto narrate dai media e da quelle legioni d’incapaci giornalisti, analisti e politici, che cercavano di coprire il fatto di non averne azzeccata una. Infatti, come arma di distrazione di massa essi scelsero di continuare a pestare in un mortaio vuoto invece di cominciare a chiedersi che cosa sarebbe cambiato con Trump alla Casa Bianca: sarebbe mutata la storica alleanza USA – Israele? Sarebbero cambiati i rapporti con l’Arabia Saudita, con la Cina e con l’Iran? Invece, dopo aver scritto per mesi sui presunti scandali sessuali di Trump e sulla sua incapacità politica, dopo aver fatto la radiografia morale e sessuale perfino alla first lady Melania, i media americani, in compagnia dei volenterosi democratici, invece di accingersi a giudicare l’operato politico del nuovo presidente, organizzarono la più grande e indecente caccia all’uomo mai vista in America, e un mobbing politico internazionale a dir poco sconcertante. Una caccia che sarebbe terminata con il fallito impeachment di Trump tentato dai democratici sulla vicenda dell’Ucrainagate.
Un altro esempio di mobbing economico quella volta fu la preventiva dichiarazione dell’agenzia internazionale di valutazione del credito, la famigerata Fitch Ratings, appena il giorno dopo le elezioni: «L’amministrazione Trump rappresenta un rischio alle condizioni economiche internazionali e ai fondamentali globali dei rating degli Stati […] La prevedibilità della politica americana è diminuita, con l’accantonamento dei tradizionali canali di comunicazione e gli anticipati cambiamenti nelle politiche con implicazioni globali». Ma era stata proprio la prevedibilità della politica del suo predecessore Obama a far retrocedere l’America rispetto alla Cina e all’Europa a trazione tedesca! Peraltro, la riprova della strumentalità delle valutazioni di Fitch sulla politica economica di Trump, che non era neppure cominciata, era nelle sue incoerenti valutazioni sui rischi perché, perché mentre da un lato sosteneva che la materializzazione di tali rischi poteva comportare una situazione sfavorevole alla crescita economica degli USA, dall’altro ammetteva tranquillamente che alcuni elementi dell’agenda economica di Trump potevano rivelarsi positivi per la crescita americana, come gli investimenti nelle infrastrutture, per la riduzione delle regole e, infine, per la volontà di tagliare le tasse. Che volete… pare che nel mondo dell’alta finanza la coerenza non sia sempre di casa.
Ma intervennero i mercati azionari a dire che la ricetta economica di Trump era quella giusta, dal momento che nel suo primo anno di presidenza l’indice di borsa Standard & Poor’s era passato da una media di 5,7 al 19,4%, grazie anche ad una riforma fiscale che aveva abbassato l’imposizione federale per le imprese dal 35 al 21%.
E neppure il Covid-19, il virus cinese come lo chiama ineccepibilmente il Tycoon, è riuscito a dimostrare che la sua ricetta economica era stata sbagliata, laddove nello scorso mese di maggio, nonostante le previsioni delle solite prefiche che avevano già messo in conto un aumento del tasso di disoccupazione del 20% per l’arresto parziale dell’industria in vari Stati, si sono accorti che la disoccupazione non soltanto non è cresciuta ma è addirittura scesa dal 14,7 al 13,3%, con un aumento di 2,5 milioni di posti di lavoro.
Sicuramente non sarebbe finita così se Trump avesse decretato il lockdown totale come chiedeva l’establishment filo democratico che, poi, ha pensato bene di concordare con lui un massiccio impiego di risorse economiche a favore dei cittadini e delle imprese per indennizzarli del danno che stavano subendo. Come al solito i democratici, così come in generale la sinistra internazionale, sono sempre ben lieti di distribuire risorse senza domandarsi, come nel caso, chi e come avrebbe dovuto produrle se il presidente avesse bloccato in toto l’apparato produttivo mentre i maggiori competitori, Cina ed Europa, continuavano a tenere aperte le loro industrie. Ebbene, nonostante queste motivazioni, sul Tycoon si sono riversate tonnellate di critiche e d’improperi da parte dei democratici e dei media mainstream per la sua scelta di non voler chiudere il Paese, facendo apparire le numerose morti per coronavirus con un castigo biblico arrivato per la pazzia del suo capo. Trascurando il fatto che, in rapporto alla popolazione, l’America ha avuto il numero più basso di morti rispetto alla maggior parte dei Paesi colpiti. La verità è che, con una campagna elettorale in pieno svolgimento nonostante la pandemia, fino a quel momento ai nemici di Trump rimaneva soltanto il virus da lanciargli addosso come bomba a mano nel corso della campagna elettorale.
Poi lo scorso 25 maggio, a Minneapolis, è avvenuto che la morte di un cittadino afroamericano, George Floyd, a causa di un uso a dir poco sconsiderato della forza da parte di un agente di polizia, scatenasse la rivolta della popolazione di colore tendente a far passare la morte di Floyd come un fatto di razzismo e non, invece, il crudele e insensato gesto di un agente che, peraltro, era recidivo eppure incredibilmente in servizio nella polizia comandata da un funzionario nero, di una città a guida democratica, di uno Stato a governo democratico. Nonostante questi oggettivi precedenti, con chi se la prendono i rivoltosi? Ma con Trump naturalmente, oltre che con i monumenti dedicati ai “sovranisti”, tra i quali il nostro povero Colombo.
Ma poi è vero che la polizia americana è razzista? In proposito preferiamo far parlare il nostro collaboratore Silvio Cortina che ha trattato l’accadimento il mese scorso: «… dalle statistiche consultabili da chiunque sui siti ufficiali di Internet, apprendiamo che ogni anno la polizia americana uccide 1000 persone e di queste circa la metà per utilizzo improprio delle armi o per l’eccessiva violenza, a fronte del dato che nello stesso periodo vengono uccisi, in media, tra i 100 e i 200 poliziotti, i quali evidentemente non hanno una vita facile. E non aiuta il fatto che le persone di colore, per motivi che sono sociali e perciò indipendenti dal razzismo, hanno una prevalenza statistica nel commettere dei reati. Infatti, dei mille morti uccisi dalla polizia americana annualmente il 24% è afroamericano, il che significa che sono “appena” 125 le vittime di colore per eccesso di violenza da parte della polizia americana. E per gli altri 750 morti non afroamericani nessuno scende in piazza? Evidentemente se la polizia d’oltreoceano necessita di avere regole diverse, è un problema legislativo e riguarda tutti gli americani e non soltanto quelli di colore. E comunque, il presidente degli Stati Uniti che magari potrebbe avere altre colpe politiche non c’entra proprio niente con quanto è accaduto. Tra l’altro, in casi analoghi sotto Obama, nessuno se la presa con lui […] E se non è razzismo questo».
Ma credo che, nonostante gli inviti pubblici alla calma fatti ai rivoltosi, in casa democratica aleggi sottotraccia la voglia di ergersi a paladini della rivolta degli afroamericani in versione anti Trump, una voglia raffrenata, per adesso, da alcune pessime performance, tipo Seattle, dove la polizia è dovuta correre a rioccupare l’area CHAZ gestita da pacifici cittadini e dichiarata (sic!) “zona libera dalla polizia” dalla sindachessa democratica della città. Per farla breve, la rivolta contro i sovranisti (dei quali Trump è ritenuto il capofila) potrebbe non recare grandi vantaggi al candidato democratico Joe Biden. Il quale, peraltro, ha commesso un grande errore psicologico andando a finanziare il “Minnesota Freedom Fund”, un’associazione che raccoglie i fondi per pagare la cauzione ai rivoltosi di Minneapolis arrestati dalla polizia, una scelta di campo a tutti gli effetti che non piacerà per niente ai moderati americani dei due schieramenti, che tra 150 giorni dovranno recarsi alle urne per scegliere il presidente. A tutto questo bisogna aggiungere che, nonostante la lunga carriera politica e la vice presidenza con Obama, Joe Biden è un politico piuttosto incolore, di modesta caratura, intorno al quale sarebbe difficile costruire un marketing elettorale come quello che imbullonò Kennedy e Obama alla Casa Bianca, due presidenti a mio avviso fallaci in politica estera, ma certamente ricchi di personalità.
Vista dall’Italia, questa sembra essere la situazione sociopolitica americana, e quand’anche Biden dovesse vincere le elezioni, cosa che non auspico nonostante gli 8 punti di vantaggio che gli accreditano i soliti scalcagnati sondaggisti, l’America ne uscirebbe politicamente corretta, come dire “normalizzata”, cioè priva di coraggio, certamente indebolita e con lei lo schieramento occidentale che, al cospetto di un’America debole, potrebbe contare a breve le prime defezioni di alleati orientati a sostituire Pechino a Washington.
Insomma un’eventuale vittoria dei democratici americani e di uno scialbo presidente potrebbe, in questo preciso momento storico, diventare l’ultimo atto della guerra fredda e il primo della lenta ma progressiva sottomissione di noi occidentali a una nuova forma di dittatura comunista, quella che farebbe di noi i nuovi untermenschen economici con la stella rossa sul petto.