Sui bambini deportati
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Se vogliamo abbozzare una qualche difesa contro il nuovo asse del male, dobbiamo smettere di ragionare in base ai parametri etici vigenti oggi in Occidente, dove non si deporterebbe nemmeno il cane fastidioso del vicino di casa, tantomeno dobbiamo prendere sottogamba gli accadimenti del passato perché possono ancora essere replicati, anzi è probabile che si ripetano prima di quanto noi immaginiamo
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Qualcuno ha trovato eccessiva, se non addirittura un errore, la decisione della Corte Penale Internazionale de L’Aia di emettere un mandato di cattura a carico del presidente russo Vladimir Putin per il crimine di deportazione (in Russia) di migliaia di bambini ucraini. In verità, non sono stati pochi neppure quelli che, specialmente in Italia dove il despota del Cremlino vanta parecchi estimatori, hanno messo in dubbio il programma della Russia teso a cancellare l’identità nazionale dei bambini ucraini, nonostante che tale programma sia stato attivato fin dai primi giorni dell’invasione (fonte: Yale Humanitarian Research Lab e Dipartimento di Stato americano).
Noi non siamo in grado di esibire documenti schiaccianti o testimonianze che comprovino plasticamente l’ennesima pratica di genocidio culturale che affonda le proprie radici nel nazismo tedesco e nel comunismo russo, specialmente sotto Stalin, che è il mito di Putin, ma abbiamo recuperato qualche foto che la dice lunga sulle pratiche dei regimi comunisti e delle istituzioni che ad essi si richiamano ancora oggi.
Durante la guerra civile tra fazioni comuniste e anticomuniste in Grecia, nel periodo 1943 – 1949, iniziò la Paidomazoma, ovvero il rapimento dei bambini da parte dei comunisti greci per spedirli nei Paesi sovietizzati del loro paradiso in terra allo scopo di esservi rieducati, a pane e marxismo, per guidare la futura riscossa socialista in Grecia. Secondo il censimento fatto all’epoca dalla Croce Rossa, i bambini sequestrati e fatti espatriare forzosamente furono all’incirca 30.000, di età compresa tra i tre e i quattordici anni. Questa massa di piccoli disgraziati venne, poi, suddivisa per sesso e rinchiusa in appositi “Centri di rieducazione socialista“.
Sempre secondo i dati della Croce Rossa che è un organismo super partes non dimentichiamolo, quei bambini finirono distribuiti in diciassette campi bulgari, in undici campi rumeni, altrettanti ungheresi, tre polacchi, cinque albanesi e della Germania Orientale, quindici iugoslavi e diciotto cecoslovacchi. La foto di copertina, infatti, ritrae un gruppo di bambini polacchi deportati dai russi nel periodo 1939 – 1941 (fonte: Irena Grudzinska Gross, Jan T. Gross, War Through Children’s Eyes, Hoover Institution Press, Stanford) per essere rieducati in continuità con i metodi di Stalin, che aveva fatto già deportare centinaia di migliaia di cosacchi, estoni, finlandesi, coreani, polacchi, lituani e ovviamente ucraini. Ebbene, se questi popoli odiano così tanto i russi bisogna ammettere che qualche ragione ce l’hanno.
Attenzione, però, a non continuare a ragionare in base ai parametri etici vigenti oggi in Occidente (dove non si deporterebbe nemmeno il cane fastidioso del vicino di casa), tantomeno a prendere sottogamba gli accadimenti del passato perché possono ripetersi ancora, anzi è probabile che si ripetano prima di quanto noi immaginiamo.
Addirittura?
E sì, perché dopo le cazzate fatte da Busch Jr, da Obama e da Biden in politica estera, specialmente in Asia e Medioriente, si sta saldando un asse che, fin da subito, possiamo definire “asse del male”, perché composto da Paesi con regimi violenti e privi di democrazia i quali, già nel passato recente, sono spesso ricorsi alla deportazione di milioni di esseri umani, vuoi per motivi religiosi, vuoi per motivi economici, vuoi per motivi di puro ripopolamento etnologico. E parliamo della Cina, della Russia, dell’India e dell’Iran che, insieme, producono un ragguardevole Pil, anche perché i loro cicli produttivi non soggiacciono a nessun vincolo riguardante la sicurezza degli addetti e la salubrità dell’ambiente di lavoro.
Ecco, se questi Paesi continueranno a crescere sul piano economico e l’Occidente a decrescere, i prossimi deportati saranno i nostri pronipoti, nel senso che essi saranno obbligati a spostarsi dove vorrà il padrone di turno che, temiamo, sarà la truculenta dittatura cinese. E questa nefasta ipotesi non è così peregrina se pensiamo che Xi Jinping è stato per tre giorni riverito ospite di Putin, un ricercato internazionale, senza porsi nessun problema e per parlare di un piano di pace che non contiene punti sui quali confrontarsi ma soltanto presupposti. E, poi, è la prima volta che si vede un mediatore parlare con uno solo dei contendenti. Perciò sono poco convincenti coloro i quali vanno cianciando di pace senza spiegare come raggiungerla, senza consegnare l’Ucraina a Putin.
Il problema del nostro tempo, peraltro, non è la pace in sé, ma la sua tipologia, cioè quale tipo di pace immaginiamo per l’Ucraina e per noi in un contesto geo-strategico profondamente mutato, soprattutto sotto l’aspetto morale. Infatti, era dal 1945 che non vedevamo Paesi sovrani invasi dal vicino prepotente, città rase brutalmente al suolo dai bombardamenti, che non sentivamo parlare così sfacciatamente di annientamento, che non si deportavano adulti e bambini. Continuare ad aiutare con ogni mezzo l’Ucraina (come sosteniamo fin dall’inizio dell’attacco russo) non deve, ovviamente, comportare la rinuncia ad ogni progetto di pace. Purché non sia la pax cinese.
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