LOADING

Type to search

Home Notizie Principali Top News

Il Comandante Generale dei Carabinieri in cucina

Share
zio generale
La cucina, che era la sua occultata e poco militaresca passione, vedeva spesso il Generale Pietro Corsini protagonista dei pranzi familiari domenicali, quando tronfio e sicuro faceva la spola tra cucina e sala da pranzo armato di grembiule, mestoli o padelle e con i baffoni alla Umberto sempre intrisi di sugo

– Lorenzo Corsini –

Roma 1° gennaio 1981: «A Lorenzo il mondo perché, nei limiti del possibile e delle sue forze, lo conquisti. Corsini, prozio». Questa fu la dedica fatta da zio Pietro sul Nuovo Atlante Mondiale dell’Arma dei Carabinieri che mi aveva regalato. Da una parte io che avevo iniziato da pochi mesi la prima elementare, dall’altra, invece, lui, il fratello Generale di mio nonno paterno. Già Comandante della Scuola di Guerra di Civitavecchia nel biennio 1974-1977, per i successivi due anni il prozio, come lui si definiva, fu il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri.  Dopo di che fece parte del Consiglio Supremo della Difesa sotto la presidenza dell’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Per quanto all’epoca non fossi in grado di apprezzarne le doti militari, quando parlavo di lui, per pavoneggiarmi con i compagni, dicevo «Mio zio Generale», in famiglia invece egli era semplicemente lo zio Pietro. Soltanto Maria, sua moglie, lo chiamava Piero e non capii mai il perché, forse voleva fare la differenza con noi. Sta di fatto che, durante gli anni che abitammo a Roma, io e i miei genitori diventammo quei figli che gli zii non avevano avuto, e fu allora che ebbi modo di rendermi conto che «Mio zio Generale» senza l’uniforme era un’altra cosa.

La cucina – una sua occultata e poco militaresca passione – lo vedeva, infatti, protagonista dei pranzi familiari domenicali allora che faceva la spola tra cucina e sala da pranzo armato di grembiule, mestoli o padelle e con i baffoni sempre intrisi di sugo.  Mi pare ancora di sentirlo enumerare i suoi piatti forti e parlare anche di una cosa a me strana all’epoca e chiamata ghiacciaia, o di rivederlo servire a tavola pietanze che all’acerbo palato di un bambino sembravano degli strani paciughi (delle schifezze…), sicuramente ben lontane dalla familiare e più rassicurante pasta al pomodoro.

Spesso, specialmente in questa stagione, le nostre riunioni gastronomiche avvenivano fuori di casa, alla tavola di un ristorante, sempre diverso. Ne ricordo uno in particolare perché era in versione punk, oltre che il più claustrofobico tra tutti quelli che avevo conosciuto fin lì. Era, in effetti, uno scantinato che avrebbe dovuto contenere la metà delle persone solitamente presenti. Insomma i commensali erano gli uni a ridosso degli altri e per rimarcare, credo, la sensazione di essere un’unica, chiassosa tavolata alla buona, il padrone del “ristorante” ci serviva con la pipa in bocca. Una roba che oggi interverrebbero i Nas a farlo chiudere per sempre.

Oddio, anche «mio zio Generale» accendeva la pipa dopo pranzo (che tempi!) e per un bambino cui il tempo degli adulti pareva eccezionalmente dilatato, quel gesto era insopportabile ma non per motivi salutisti di cui all’epoca non si curava nessuno. Era che la pipata del prozio mi faceva venire i nervi, non solo perché mi ricordava l’idolatrata collezione di pipe di mio padre che non potevo sfiorare neppure con lo sguardo, ma anche perché allungava la mia pena di dover stare ancora compìto e composto a tavola. Insomma per colpa della pipa pareva che la liberazione da quegli interminabili pranzi romani fosse ancora più lenta ad arrivare di quanto non si dissolvessero le volute di fumo che il prozio espirava voluttuosamente.

A onore del vero, bisogna dire che il tempo della pipata veniva sfruttato dal prozio per educarmi, per svelarmi segreti arcani del tipo «…che la fetta di pizza va assaporata rigorosamente con le mani, dopo averne fatti combaciare all’interno i lembi», oppure che la fregna, da me inconsapevolmente tirata in ballo, non era la stessa delle fregnacce. In un certo senso quelle furono le mie prime lezioni teoriche di sesso somministratemi sotto gli sguardi imbarazzati dei miei puritani genitori. La dedica cui ho accennato all’inizio era quella che «mio zio Generale» appose sul mio primo atlante geografico che non era un atlante qualunque, era il Nuovo Atlante Mondiale dell’Arma dei Carabinieri, che possiedo ancora e che oggi è un autentico cimelio. Quando, poi, iniziai a frequentare le scuole medie, zio Pietro e zia Maria mi regalarono il loro Dizionario della Lingua Italiana ristampato addirittura due anni prima che io nascessi… ammetto che in questi anni mi è venuto più volte il sospetto che il «mio zio Generale» fosse un tantino tirchio e che avesse la propensione al riciclo dei regali, ma questo sospetto è stato sempre stemperato dallo struggente ricordo di un Titano buono che accompagnò la mia fanciullezza e che, tra una pipata e l’altra, m’insegnò a distinguere la fregna dalle fregnacce. Caro, ineffabile zio Pietro, buon per te che ci hai lasciati quando i due termini erano ancora il sinonimo l’uno dell’altro. Oggi, invece, soltanto a nominarla la fregna si corre il rischio di passare per becero maschilista e, pensa tu, si potrebbe perfino perdere il posto di lavoro nell’appiattente impero del politicamente coretto che è divento il nostro Paese.

Potrebbe interessarti anche Il 25 luglio di Mussolini, del re, di Badoglio e di nonna Giovannina

Tags:

Leave a Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *