L’estremismo eroico vince la guerra
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Enrico Toti era un ex ferroviere romano che, benché fosse mutilato di una gamba a seguito di un incidente ferroviario, voleva ad ogni costo andare a combattere tant’è che, dopo molte peripezie e ricorrendo a una raccomandazione del Duca d’Aosta, era riuscito a intrufolarsi tra i reparti al fronte come cooperante civile
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4 novembre 2018 – I nostri avversari, passato l’ottimismo per una vittoria che nei giorni di Caporetto avevano ritenuta certa, dovettero cominciare a meditare sul fatto che non avrebbero facilmente messo a terra soldati che, seppur privi di elevate attitudini militari e buoni comandanti, avevano dalla loro un approccio emotivo con le vicende della vita molto diverso dal loro e che erano capaci di rendere eroiche perfino la tragedia o la farsa.
Sarebbero tanti gli esempi che si potrebbero fare su questo nostro bivalente modo di essere, ma ci limiteremo a raccontare qualcuno di quegli episodi che, anche se poco noti, riteniamo siano i più indicativi per capire di che pasta erano fatti gli uomini che in 41 mesi di dura trincea fecero vedere i sorci verdi a due tra i più potenti eserciti del mondo.
Enrico Toti era un ex ferroviere romano che, benché fosse mutilato di una gamba a seguito di un incidente ferroviario, voleva ad ogni costo andare a combattere tant’è che, dopo molte peripezie e ricorrendo a una raccomandazione del Duca d’Aosta, era riuscito a intrufolarsi tra i reparti al fronte come cooperante civile. Sta di fatto che, durante un attacco del reparto Bersaglieri che lo aveva accolto, anche Toti partì all’assalto e mentre sparava e si sosteneva con una stampella che solo Dio sa, fu ripetutamente colpito da un cecchino austriaco. Prima di stramazzare a terra trovò ancora la forza di lanciare la sua stampella d’invalido in faccia al nemico, all’anonimo tiratore austriaco che con lui, privo di una gamba, aveva avuto gioco facile nel colpirlo. Ebbene, soltanto l’esercito di un popolo che ha nell’emotività il proprio punto di forza, poteva arruolare un uomo con una sola gamba nei Bersaglieri, un corpo di assaltatori creato per correre. Ma siccome la nostra emotività è senza limiti, all’animoso Toti fu consentito d’intrupparsi addirittura con i Bersaglieri ciclisti, quelli che dovevano raggiungere la prima linea con la bicicletta che – come tutti sanno – ha due pedali perché i ciclisti hanno normalmente due gambe e due piedi. In qualsiasi parte del mondo ma non in Italia!
Il 23 agosto del 1917 al comandante di una compagnia del 159° reggimento di Fanteria attestato sulle falde del Monte Jelenik per poco non vennero le traveggole vedendo arrivare in lontananza una colonna di austriaci guidata da un suo fante che, con la chitarra in mano, sembrava stesse… cantando a squarciagola, laddove soltanto uno starnuto faceva scatenare i mitraglieri austriaci! Era successo che Leopoldo Boncompagni, classe 1893, con l’aiuto di due commilitoni aveva assaltato e conquistato una postazione austriaca in caverna facendo una cinquantina di prigionieri e, avendo rinvenuto tra i materiali da portar via una chitarra, non trovò di meglio che mettere gli allibiti austriaci in fila indiana, con le mani alzate, e condurli nelle linee italiane cantando e accompagnandosi con la chitarra sua personale preda di guerra.
Il tenente del 22° Fanteria, Arrigo Biego, il giorno prima di cadere a Monfalcone, così aveva scritto alla fidanzata: «Com’è brutto uccidersi sotto questo cielo, davanti a questo mare, in questa notte d’indicibile poesia, in cui la natura sembra farsi più bella per dilaniare il cuore dei morenti, con l’ultimo sorriso, come d’insaziabile sirena! Ma tu, o Patria, lo vuoi? Ebbene sia!». Anche se a un secolo di distanza v’è ancora da commuoversi, e anche da sorridere con tenerezza, leggendo queste cose perché significano che noi italiani restiamo sempre uguali a noi stessi giacché neppure la prospettiva della morte immanente riesce ad annacquare la nostra vena emotiva.
Insomma, possiamo davvero dire che la nostra vittoria nella Grande Guerra oscillò tra due estremi eroici ai quali, volendo, possiamo anche dare nome e cognome: Vittorio Montiglio, Ernesto Nathan. Il primo, un ragazzo italiano di Valparaiso che nel 1917, all’età di quattordici anni, riuscì a farsi arruolare con un raggiro e cioè falsificando i propri documenti. Il bello fu che il raggiro riuscì così bene che lo mandarono pure a fare il corso ufficiali di complemento, sicché nel 1918 assunse il comando di un reparto di arditi molti dei quali avevano l’età di suo padre. Ovviamente fu decorato di medaglia d’oro al valor militare. Il secondo, Nathan, che era stato sindaco di Roma fino a qualche anno prima, nel 1915 si arruolò anche lui volontario e combatté valorosamente sul Col di Lana. Dov’era il suo estremismo eroico? All’epoca Nathan aveva settant’anni!
Parlare in termini esaustivi della I guerra mondiale sarebbe difficile per uno storico titolato figuriamoci per noi che, peraltro, volevamo soltanto ricordare lo spirito con il quale i nostri avi affrontarono la più dura prova che il nostro Paese abbia mai sostenuto nel corso della sua storia. Ciò con la segreta speranza che anche il lettore condividerà con noi, oltre agli auspici di pace tra i popoli, la riconoscenza e l’orgoglio di essere progenie di coloro che difesero il Paese oltre ogni limite umano, abbarbicati con le unghie alle balze alpine, o sporgenti come spuntoni di roccia dalle fangose ripe del Piave dopo Caporetto.