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La croce di fuoco della ritirata di Russia

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È notte, ci troviamo nella steppa ucraina spazzata dalla tormenta ghiacciata in una notte imprecisa del periodo natalizio 1942 – 1943, sicché non s’intravedono neppure i quattro militari italiani che, scarsamente equipaggiati per quelle temperature, arrancano faticosamente sul tratto Kupiansk – Kharkov. Si sono rassegnati all’idea che probabilmente non usciranno vivi da quell’inferno di ghiaccio e che non rivedranno mai più le loro famiglie. Ma poi lungo il percorso trovano una grande croce di legno che diverrà la loro materiale salvezza
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In questi stessi giorni, ma di settantasei anni fa, era in corso la controffensiva dell’Armata Rossa contro le composite forze dell’Asse che, conosciuta in Italia come seconda battaglia difensiva del Don, dall’11 dicembre 1942 al 31 gennaio 1943 coinvolse l’ARMIR, Armata Italiana in Russia. La battaglia si concluse con la ritirata italiana che, con una temperatura di -30°, si svolse sotto la costante pressione dei russi e si snodò in tanti combattimenti che oggi portano nomi di località che, eccetto gli almanacchi dei vari Reparti, forse nessuno ricorda più: Arbuzovka, Verchne CirskajaKalmikov,  Čertkovo, Kantemirovka, Nikolaevka, Valujki. Lunga e dolorosa fu, dunque, la strada che dovettero percorrere i soldati italiani per sfuggire alla morsa dell’Armata Rossa, eppure, lungo quella strada, accaddero episodi incredibili dove, talvolta, si assottigliò perfino il già labile confine tra il trascendentale e il reale.

A ricordo di quei nostri soldati tanto valorosi quanto sfortunati, riportiamo uno di quegli episodi narrato direttamente dal protagonista che a quel tempo era un giovane Ufficiale:

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«Coraggio ragazzi, forse raggiungeremo un’isba nella quale potremo riposarci e scaldarci un poco». Due ore innumerevoli; ripetevo, a brevi intervalli, questa frase nel tentativo di incoraggiare i tre uomini che, coi volti lividi dal gelo, ormai esausti, mi seguivano nel disperato tentativo di sfuggire, dopo aver perso i collegamenti con i propri reparti, alla morsa dei carri armati che minacciavano di chiuderci ogni via di scampo. Spesso per un combattente la prigionia, in casi disperati, è come un’ancora di salvezza, ma noi ben sapevamo che da quel nemico non avremmo potuto ottenere mercé. Sottoposti ad una temperatura glaciale, affamati, stremati, anche se non ci avessero passati subito per le armi, saremmo poi periti, senza aiuto e senza conforto, trattati come bestie da macello. Per questo resistevamo a quella fatica terribile e disumana; l’istinto di conservazione ci aveva permesso di compiere una marcia che, misurata in chilometri, avrebbe dato una cifra che noi stessi, oggi, non crederemmo possibile.

Eravamo in quattro, per uno strano caso di quattro reparti diversi: un alpino, un artigliere, una camicia nera ed io fante. Nessuno sapeva, e non lo abbiamo mai saputo, il nome degli altri: non era quello il momento delle presentazioni. Li avevo incontrati durante la giornata, qua e là, abbattuti r ormai rassegnati alla morte, semisepolti dalla neve; li avevo alla meglio rincuorati e costretti a seguirmi e tentavo ora, forse più per il terrore della solitudine che per umanità, di condurli alla salvezza. Venivano dal fronte del Don, crollato dopo mesi di epica lotta: uomo contro acciaio, uno contro cento. Camminavamo già, insieme, da un numero incalcolabile di ore ma ancora nulla di vivente avevamo incontrato, eccetto noi stessi. In quell’immensa e squallida distesa di neve vergine e intatta, che sembrava stendersi all’infinito dinanzi a noi, arrancavamo affondando fino alle ginocchia, con il volto sferzato. Il calore della vita del nostro corpo si manteneva solo in virtù del moto cui eravamo sottoposti; fermarsi sarebbe stato morire.

Ma la notte sopraggiungeva e con terrore scrutavamo l’orizzonte nella vana speranza di scorgere un tetto, una grotta, qualche riparo insomma che ci permettesse di fermarci e di accendere un fuoco. Ma nulla di ciò appariva ai nostri occhi lagrimanti ed abbacinati dall’uniforme biancore. Poi, accanto ad un gruppo di rocce nude, l’artigliere crollò di schianto. Accorremmo verso di lui e sollevandolo, lo portammo verso un grande masso a ridosso del quale lo deponemmo. Si riprese un poco, ma era ben visibile che non gli sarebbe stato possibile proseguire ancora. Fu giocoforza fermarsi, liberammo dalla neve un tratto di terreno servendoci del calcio dei fucili, e ci rannicchiammo accanto a lui, cercando di infondergli un po’ di calore con i nostri corpi. Ma avevamo la disperazione nel cuore, per quanto rassegnati al nostro triste destino. Rimanemmo così a lungo, in silenzio, immersi nei nostri dolorosi pensieri: intanto la notte era scesa a rendere ancora più tragica la nostra situazione, già disperata alla luce del giorno.

Di lì a un certo punto, alzando gli occhi, vidi, infissa tra due massi, una grande croce di legno, istintivamente mi segnai, quasi a chiedere aiuto a quello che il simbolo cristiano rappresentava. Dopo di che una certa calma scese nel mio animo. Avevamo escluso la possibilità di accendere un fuoco; d’intorno noi non vi era che neve gelida, depositata sulla nuda terra della steppa; non un albero, non un cespuglio, nulla di combustibile metteva a disposizione la natura ostile. Alcuni minuti più tardi, rivolgendo nuovamente i miei sguardi al simulacro, ebbi un’idea che, se pure al momento mi parve sacrilega, vidi poi sotto una luce diversa. Gesù – pensai – nella sua infinita bontà, sarà ben lieto che questa croce, simbolo del suo sacrificio per la salvezza degli uomini, sia usata per conservare in vita degli esseri umani. Comunicai ai miei compagni il mio pensiero: e cioè usare il legno della croce per scaldarci. Sul momento essi mi guardarono interdetti e quasi spaventati dall’enormità della mia proposta; poi forse di fronte alla certezza della morte per congelamento, abbandonarono le loro esitazioni ed annuirono in silenzio.

Ci arrampicammo allora sul cumulo di rocce e svellemmo la croce dal suo sostegno; prima di far ciò ci segnammo devotamente, poi la calammo a terra su quella parte liberata dalla neve, ma non avemmo il coraggio di spezzarla: ci limitammo a porre quattro grosse pietre sotto le sue estremità in maniera che rimanesse ben sollevata. Poscia frugammo a lungo fra la neve per poterla coprire di ciuffi d’erba e di piccoli stecchi; ma siccome tale materiale scarso e umido non sarebbe stato sufficiente ad avvivare la fiamma, vuotammo i nostri sacchi ed i nostri logori portafogli traendone immagini, lettere, fotografie, calendarietti, tutte quelle piccole cose che ogni soldato reca sempre con sé, tutto quello che può ricordargli la mamma, la Patria lontana; e tutto ciò accatastammo sotto la croce. Di lì a poco una bella fiammo avvampò, riparata dalle rocce dal soffio del vento; presto anche il legno secco della grande croce cominciò a fiammeggiare, da un’estremità all’altra, come se fosse imbevuto di qualche sostanza infiammabile. Bruciava silenziosa, senza scoppiettii, senza fumo, e le fiamme che da essa si levavano, avevano tutte la stessa altezza; una vera croce di fuoco. Oggi mi vengono in mente questi particolari. Al momento, pieno di gioia per il ristoro che il calore mi dava e per la quasi certezza di salvezza che da esso me ne veniva, non ci feci caso e neppure i miei compagni, certo, lo notarono.

Fiocchi di neve fitti e larghi erano ricominciati a cadere, ma attorno al nostro fuoco essi non riuscivano a depositarsi sul terreno e, come la croce bruciava uniformemente, uniformemente intorno a noi se ne disegnava un’altra più grande, limitata da un muro bianco, alto circa un metro e dai contorni così regolari da sembrare tracciato con le nostre mani. In quella zona libera ci stendemmo avvolti nei cappotti ormai asciutti, ciascuno lungo uno dei bracci ardenti della croce, e presto cademmo in un sonno riparatore. Ci destò l’alba; la croce ardeva ancora, ma ora senza fiamma: pure eravamo caldi, quasi che tutto il calore sprigionato dalla combustione si fosse fermato intorno a noi, nella fossa di neve, trattenuto da un ostacolo invisibile. Ci guardammo stupefatti. Come aveva potuto quel poco legno ardere una notte intera senza incenerirsi? L’artigliere disse: «Certo è una qualità di legno molto resistente al fuoco». L’alpino cui tremavano le labbra, fece uno sforzo per parlare, poi mormorò: «Forse il freddo l’ha fatto bruciare lentamente». Il milite intanto si faceva il segno della croce. Ma nessuno di noi volle esprimere interamente il suo vero pensiero, pur sapendo che esso rispecchiava pienamente quello degli altri. Troppo in alto esso spaziava perché se ne potesse parlare.

Mentre ci apprestavamo alla partenza, la croce lentamente si spense, diventando in breve nera e fredda, come costatammo nel toccarla. Di comune accordo, inginocchiati, con le baionette scavammo una fossa nel terreno umido e morbido della steppa, poi ve la deponemmo pian piano. Ma un nuovo fenomeno ci colpì: essa era pesante né più né meno che la sera prima, forse anche più compatta, quasi temperata dal fuoco il quale non aveva che annerito la sua superficie, senza consumarla in profondità. Sì! Doveva essere stata costruita in un legno sconosciuto, chissà da chi? Eretta lì, sul nostro cammino, per permetterci di riabbracciare le mamme e le spose lontane, che certo pregavano, come avevano sempre pregato, per la nostra salvezza. Coprimmo il simulacro ben bene, spianammo il terreno, e gettammo nella fossa di neve altra neve fresca, fino a cancellare ogni traccia del nostro passaggio. Essa è certo ancora là, sulla strada che va da Kupiansk a Kharkov, presso un cumulo di rocce brune. Sono certo che nessuno ha potuto né potrà mai più toccarla.

Riposati e rinfrancati riprendemmo il nostro cammino, e poche ore dopo giungemmo ad un villaggio russo, ancora occupato dalle nostre truppe che si accingevano a sgombrare; rifocillati, fummo avviati ai centri di raccolta dei nostri rispettivi reparti.

Non ho più visto i miei compagni di allora; nel dramma che avevamo vissuto, un nome non diceva nulla e non ce lo eravamo chiesto. Peccato! Vorrei scrivere loro, vorrei chiedere se si sono resi conto di che legno, era la croce. Un legno che brucia, ma non si consuma, che arde come una fiaccola ed annulla col suo calore un gelo infernale. Di una sola cosa sono sicuro: che i miei compagni di quella notte, anche se potevano esserlo allora, non saranno oggi dei senza Dio».

(Generale Leonardo Siani)
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