Il Paese che premia i cattivi, non i buoni
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La legge spesso non s’informa ai codici dello Stato laico ma a quelli della religione e quasi sempre ai trattati di sociologia o di psicologia, sicché un delinquente di piccolo cabotaggio non è valutato come un pericolo per la società ma come una sua vittima e che, nel migliore dei casi, va redento e non punito. Il paradosso è che i costi economici di questa improbabile redenzione sono accollati alle sue vittime
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L’8 aprile del 2013 due ragazze quindicenni strangolarono, nella città di Udine, un pensionato di sessantasette anni che – a loro dire – aveva sollecitato delle prestazioni sessuali a pagamento. Ebbene, lo psichiatra e la psicologa incaricati dal Tribunale dei Minorenni di analizzare le due ragazze ed emettere un parere tecnico sulla loro capacità d’intendere al momento dell’assassinio, così relazionarono rispettivamente: «Versano [le ragazze] in una condizione di profonda immaturità, con una sofferenza priva di rappresentazione, che le rende incapaci di intendere e di volere – Attualmente le due ragazze hanno la capacità di partecipare coscientemente al procedimento e non sono socialmente pericolose». Mah, chissà perché i giudici non si accorsero che gli estensori delle relazioni avevano attestato l’uno il contrario dell’altro. Ma andiamo avanti.
A Milano l’11 maggio del 2013 un africano originario del Ghana, Adam Kabobo, uccise tre passanti spappolandogli la testa a colpi di piccozza, mentre quei poveretti se ne andavano per i fatti loro in giro per il quartiere Niguarda. Appena un anno dopo quel triplice assassinio e con una rapidità che non ha molti precedenti nel nostro sistema giudiziario, il reo fu condannato a trent’anni di carcere ma ne avrebbe scontato soltanto venti. Questa la buona sintesi delle motivazioni che determinarono lo sconto di pena: «La condizione di emarginazione sociale e culturale di Kabobo è stata valutata quale concausa della patologia mentale riscontrata…». Questa bislacca motivazione, tra l’altro, stravolge una verità: la condizione di emarginazione sociale non può essere valutata come una patologia, ma come una deplorabile condizione che la società e le istituzioni (soprattutto le istituzioni) avrebbero il dovere di eliminare o ridurre a monte del problema. Perciò, giustificare parzialmente un brutto reato soltanto perché chi l’ha commesso è un emarginato è una stronzata, soprattutto perché nessuno valutò, o scrisse sui giornali, che Kabobo era un clandestino e che, pertanto, in Italia non ci doveva neppure stare.
Il 6 giugno del 2014 due bambini africani di un asilo dell’hinterland di Monza, di sei anni ciascuno (quindi non Rocky Balboa e Ivan Drago…), bisticciando fra loro fecero cadere la maestra che si procurò un livido a una gamba: per questa ragione la preside li allontanò dall’asilo per un mese. Oddio, non è che abbiamo in grande estimazione i dirigenti scolastici italiani e quell’ennesimo somaro messo a capo di una struttura di formazione civica e culturale senza averne la competenza, nella particolare circostanza, riuscì a dimostrare che la nostra disistima nei confronti della sua categoria è ben riposta: ma la schŏla dei padri latini non è il luogo dove si attende allo studio e agli insegnamenti, anche comportamentali? E allora, come si fa ad allontanare dalla scuola due frugoletti vivaci con meno di sei anni di età perché bisticciavano tra di loro? Non era meglio lasciarli a scuola e insegnar loro i vantaggi dell’amicizia e della cooperazione? Confinandoli a casa loro per un mese avranno imparato qualcosa? Sì, a diventare più furbi, a litigare senza farsi più beccare dalle maestre.
Qualche settimana fa, dopo il grave accoltellamento di un poliziotto da parte di un marocchino alla stazione ferroviaria di Lambrate, un egiziano alla stazione di Milano ha assalito un altro poliziotto che, per fermarlo, gli ha dovuto sparare a una spalla. Ebbene, con la solita prontezza quando deve dare addosso alle forze dell’ordine, la Procura milanese ha subito iscritto il poliziotto nel registro degli indagati per lesioni dolose aggravate. Si tratta di un’iscrizione tecnica, hanno detto. Però lui, adesso, deve trovarsi un avvocato e pagarlo con lo stipendio da fame che gli passa lo Stato per prendere calci, coltellate e sputi.
Di esempi di giustizia ingiusta in Italia ne potremmo fare a bizzeffe, ma per ragioni di spazio ci siamo limitati a citare i casi più paradossali. Le domande che a questo punto si staranno facendo i lettori potrebbero essere due: «Ma in che razza di Paese viviamo? Su quali regole si regge una società in cui due bambini di sei anni sono trattati come delinquenti e dei veri delinquenti come dei bambini inconsapevoli?». Però, prima d’indagare su quali regole si regga la nostra società, chiediamoci se e come funziona la giustizia italiana che di queste regole è applicatrice e custode. Funzionerebbe male secondo il Rule of Law Index, ovvero l’indice dello stato di diritto per valutare la condizione dei diversi Paesi sulla base di parametri quali affidabilità, chiarezza, competenza, indipendenza e credibilità morale dei magistrati, equità del processo e adeguatezza delle risorse. Infatti, in tale indice l’Italia occupa il 28° posto.
Questa poco lusinghiera graduatoria fonda anche sul fatto che nel nostro Paese i magistrati non rispondono delle loro azioni quando sbagliano. E, in verità, sbagliano spesso. Oddio, la legge sulla loro responsabilità civile esiste fin dal 1988, ma è come se non esistesse perché essa viene sostanzialmente boicottata da coloro che, poi, dovrebbero applicarla, cioè i magistrati stessi. Sicché il giudice si trova ad agire in un regime d’impunità, dove la legge da lui applicata spesso non s’informa ai codici dello Stato laico ma a quelli della religione e, quasi sempre, ai trattati di sociologia o di psicologia, sicché un delinquente di piccolo cabotaggio non è giudicato come un pericolo per la società ma come una sua vittima e che, nel migliore dei casi, va redento e non punito. Il paradosso è che i costi economici di questa improbabile redenzione del delinquente sono accollati alle sue vittime. Ciò sempre che in una sentenza non s’insinui anche la politica, grazie alla quale l’imputato è pregiudizialmente colpevole o innocente per il solo fatto di appartenere a un partito o movimento politico, a prescindere dai reati oggettivamente commessi.
Attribuire tali disfunzioni soltanto alla Magistratura, però, lusingherebbe un po’ tutti, politici menefreghisti e noi cittadini infingardi, ma non sarebbe del tutto vero nonostante la premessa. È colpa anche della nostra concezione di vita, quella che i tedeschi chiamano Weltanschauung. Il guaio è che, mentre i connazionali di Kant hanno fondato la loro visione esistenziale sul trinomio Dio-Anima-Mondo, da secoli noi italiani l’abbiamo imperniata sulla Chiesa e sulla (scarsa) morale di Macchiavelli e Guicciardini, le tre grandi scuole dell’ipocrisia e dell’egoismo eretti a sistema di vita, di religione e di governo. È chiaro che in un simile contesto morale può succedere di tutto, perfino il sovvertimento dei valori societari da parte di chi, invece, dovrebbe difenderli. A riguardo abbiamo due esempi caldi caldi da fare. Il primo. La maestrina col manganello invece che con la penna rossa, Ilaria Salis, detenuta in carcere in Ungheria per atti di violenza gratuita contro delle persone che non la pensavano come lei politicamente, è stata candidata alle elezioni europee, con buona possibilità di essere eletta nelle fila di Allenza Verdi e Sinistra. Insomma, questa signora, per il solo fatto di aver commesso dei reati, probabilmente uscirà dalle carceri ungheresi e andrà a guadagnare quindici/sedicimila euro al mese che, sebbene indirettamente, pagheremo sempre noi.
Il secondo esempio. L’imprenditore Enrico (Chico) Forti, condannato all’ergastolo in Florida per omicidio, grazie all’intervento del governo qualche giorno fa è rientrato in Italia per poter scontare la pena in un carcere italiano. Non sappiamo se la condanna del Forti sia stata meritata oppure no, ma resta il fatto che egli sia rientrato in Italia da ergastolano e, pertanto, abbiamo trovato del tutto inopportuno il fatto che, ad accoglierlo all’aeroporto di Pratica di Mare, vi fosse il capo dell’esecutivo, appartenente peraltro a un partito giustizialista. Insomma la Meloni questa volta l’ha fatta fuori dal vaso.
E per finire di sconcertare quelle poche persone di buonsenso che sono rimaste in Italia, alla candidatura della Salis e al rientro di Forti mancava soltanto la benedizione di Sergio Mattarella. Anche se bisogna dire che nei confronti di questo governo il presidente sembra inclinare più per la stilettata interscapolare che per le benedizioni.
(Copertina: Laura Zaroli)
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