Il meridione d’Italia fu “pacificato” dai criminali di guerra
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Il Generale Giuseppe Govone fu inviato con la sua Brigata ad eliminare dalle regioni meridionali i cosiddetti briganti: soluzione peggiore per tentare di risolvere un problema, che era di natura sociale e non militare, i piemontesi non avrebbero potuto trovare! Sì, perché un esercito può sicuramente intimidire, reprimere, uccidere, ma non può sostituirsi a quelle riforme economiche e politiche che sono l’unico mezzo per conquistare veramente i popoli e tenerli, poi, insieme per farne una nazione. Per assolvere un tale compito il Generale di Isola D’Asti fu la persona sbagliata messa al posto sbagliato e, purtroppo, non fu la sola
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L’ultimo volta che ci siamo soffermati sulla storia, abbiamo introdotto la figura di un giudice onesto, ma psichicamente rigido, al servizio del Regno Borbonico di Napoli, Carlo Vanni, stavolta invece accenneremo ad un Generale intelligente ma feroce, Giuseppe Govone, al servizio del Regno Sardo Piemontese prima e dell’Italia unita poi.
Una volta realizzata l’Unità, lo storico Pasquale Villari, Ministro della Pubblica Istruzione, si lasciò andare a un grido di dolore che, se raccolto, era anche un ammonimento per i governi italiani dei successivi centocinquant’anni: «Non è il quadrilatero di Mantova e di Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino; ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi». Era stato, infatti, l’analfabetismo ad impedire la capillare accettazione del messaggio unitario da parte delle masse italiane, in special modo tra quelle meridionali, così come vi aveva impedito la penetrazione degli ideali della Repubblica Partenopea, della Carboneria e della Giovine Italia.
Il “cafone” meridionale, perché analfabeta e abbrutito da millenarie angherie, era geneticamente diffidente verso ogni forma di potere, perciò non poteva capire e accettare una coscrizione obbligatoria come quella imposta dallo Stato unitario, perché lo portava lontano da casa, magari privando la famiglia dell’unica fonte di sopravvivenza, ossia delle sue braccia. Quello della renitenza alle prime leve militari dell’Unità da parte di quei contadini, ai quali molto sbrigativamente si diede l’appellativo di Briganti, aggravò un problema che era vecchio di secoli: la miseria del Mezzogiorno. Infatti, per fronteggiare la loro rivolta, si dovette attingere alle scarse risorse economiche del giovane e malfermo Stato unitario, risorse che se fossero state impiegate per costruire strade, scuole e posti di lavoro, il Meridione e l’intero Paese sarebbero diventati qualcosa di diverso da ciò che sono oggi. Ma l’unica preoccupazione dei nuovi arrivati fu quella che ben sintetizzò, in una lettera a Cavour, il Generale e Ministro della Guerra Manfredo Fanti: «Prendiamo, prendiamo, poi vedremo».
Se poi andiamo a leggere l’ordine del giorno che, il 3 febbraio 1861, il Generale Ferdinando Pinelli indirizzò alle truppe operanti in Abruzzo, capiremo anche quali furono l’approccio mentale ed i mezzi adoperati per l’arraffamento: «Ufficiali e Soldati! Voi molto opraste, ma nulla è fatto quando qualcosa ancora rimane da fare. Un branco di quella progenie di ladroni ancora si annida tra i monti; correte a snidarlo e siate inesorabili come il destino. Contro nemici tali la pietà è delitto; vili e genuflessi quando vi vedono in numero, proditoriamente vi assalgono alle spalle quando vi credono deboli, e massacrano i feriti. Indifferenti a ogni principio politico, avidi solo di preda e di rapina». Sembrava il proclama di Custer al 7° Cavalleggeri prima della battaglia del Little Big Horne, posto che dall’altra parte non vi erano feroci pellirosse ma della povera gente che, una volta estromessi i Borboni, aveva visto i “liberatori” trasformarsi in aguzzini.
Quello fu, in realtà, lo spirito con il quale si annessero le province meridionali, annessione affidata a Generali che, quando non proprio civicamente ottusi, erano del tutto privi di capacità introspettive, oltre che di umanità, come – giusto per citare il peggiore tra essi – fu Giuseppe Govone, un personaggio di secondo piano nella storia d’Italia ma di grande rilievo per quanto riguarda la repressione del “brigantaggio” meridionale. Anzi, Govone non fu il solo, fra i Generali italiani, ad aver costruito la propria carriera massacrando i propri connazionali: il più “famoso” tra essi fu Bava-Beccaris, che il 9 maggio del 1898, come già aveva fatto ad Ancona quattro anni prima, prese a cannonate la folla di operai milanesi in rivolta contro la fame. Per tale azione il re Umberto I (il cosiddetto “re buono”) gli concesse pure la medaglia di Grande Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia.
Ma ritorniamo a Giuseppe Govone: chi era costui, si domanderebbe il don Abbondio manzoniano? Come la maggior parte degli Ufficiali dell’esercito sardo prima – e di quello nazionale dopo – Govone proveniva da una famiglia piemontese di piccola ma antica nobiltà, che a dodici anni fu ammesso a frequentare l’Accademia Militare di Torino, da cui uscì Sottotenente nel 1844. Fece, perciò, in tempo a partecipare alla I Guerra d’Indipendenza, segnalandosi nei fatti d’arme di Rivoli e di Pastrengo. Fece l’apprendistato di massacratore d’italiani partecipando, infine, alla repressione dei genovesi che si erano ribellati all’armistizio seguito alla sconfitta di Novara: fu talmente efficiente che meritò anche lui una medaglia d’argento al “valor militare”.
Dobbiamo, di contro, ricordare che con l’allora Tenente Colonnello Giuseppe Govone nacque l’Intelligence militare che egli diresse dal 1851 al 1853, operando prevalentemente lungo la linea di confine, segnata dal Ticino. Al termine di quell’incarico fu inviato come osservatore presso l’esercito turco con i cui soldati partecipò alla guerra turco-russa in Crimea prima ancora che, assieme a francesi ed inglesi, entrasse in campo anche un corpo di spedizione sardo-piemontese a fianco della coalizione militare che si era costituita contro la Russia. Il 25 ottobre del 1854 Govone riuscì ad intrufolarsi nella Brigata di Cavalleria leggera inglese al comando di quell’esaltato di Lord Cardigan e partecipare, assieme ad un altro Ufficiale italiano, alla folle ed inutile, carica di Balaklava, avendone il cavallo abbattuto e una dolorosa ferita, ad appena 4oo metri dall’obiettivo. Per il suo comportamento in quella guerra il nostro uomo ottenne onorificenze per il suo valore sia dalla Francia che dall’Inghilterra. È indubbio che Giuseppe Govone, nel frattempo diventato Generale di Brigata, fosse un uomo di grande coraggio, ma questo non lo assolve per la ferocia dimostrata contro i Meridionali.
Garibaldi che era un tontolone quando depositava la sciabola, oltre agli imbrogli fatti in segreto da Cavour per spianargli la strada della conquista del Meridione, di pasticci ne aveva fatti un po’ anche lui promettendo mare e monti alle plebi meridionali angariate dai secolari soprusi e corvè ma, dopo l’incontro di Teano, ci pensarono i Piemontesi a “mettere le cose a posto” alla maniera di Tomasi di Lampedusa: tutto doveva cambiare affinché tutto rimanesse com’era prima. Ed era da prevedersi la protesta armata di coloro che, oltre che traditi, si videro angariare ancora più che sotto i Borbone. Fu in questi frangenti che, nello stesso giorno in cui l’esercito Piemonte prendeva in mano la situazione, il Generale Govone fu inviato con la sua Brigata ad eliminare dalle regioni meridionali i briganti cui abbiamo accennato all’inizio: soluzione peggiore per tentare di risolvere un problema, che era di natura sociale e non militare, i piemontesi non avrebbero potuto trovare! Sì, perché un esercito può sicuramente intimidire, reprimere, uccidere, ma non può sostituirsi a quelle riforme economiche e politiche che sono l’unico mezzo per conquistare veramente i popoli e tenerli, poi, insieme e farne una nazione.
Ecco, per assolvere un tale compito Giuseppe Govone fu la persona sbagliata messa al posto sbagliato e, purtroppo, non fu la sola. In Sicilia egli adottò gli stessi metodi che avrebbero adoperato in seguito i nazisti col ghetto di Varsavia, come si capisce da una sua lettera diretta al Ministro degli Interni e recante la data del 10 giugno 1863: «Il mandamento di Misilmeri è noto a V.S. come uno dei cattivi di queste vicinanze. Ha un gran numero di renitenti e malviventi. […] il paese fu circondato di notte e tenuto bloccato in modo che non uscissero che avevano apparentemente l’età delle ultime classi. Fu fatta intanto colle forme legali una perquisizione a 1.150 case, isolando successivamente, con una catena di truppe i quartieri già visitati. […] Dopo due settimane di un tal lavoro, la popolazione cominciò a cedere». E lo crediamo!
Nel 1866, al comando di una Divisione, Govone partecipò alla sfortunata III Guerra d’Indipendenza, mettendo in mostra degli ottimi guizzi di genio tattico laddove cercò, dopo la battaglia di Custoza, di far sì che il Generale La Marmora non ritirasse l’esercito oltre il Mincio, ciò perché giustamente convinto che quella battaglia fosse stata una batosta ma non una sconfitta irrimediabile. Forse fu per tale ragione che fu inserito nel team che negoziò il trattato di pace con l’Austria nel 1866.
Tre anni dopo divenne Ministro della Guerra e attuò la prima di quelle fumose, sparagnine ristrutturazioni che avrebbero condannato il nostro Esercito ad essere sempre in ritardo sui tempi e, perciò, valoroso ma impreparato, come impreparato sarebbe arrivato, grazie anche alla prima delle “ristrutturazioni epocali” di Govone, alla Prima e alla Seconda Guerra Mondiale. Il nostro Generale morì a soli 46 anni.
Dobbiamo confessare che è stato piuttosto difficile farci un’idea di questo personaggio perché ad una conclamata intelligenza, coraggio e spirito di osservazione, egli non abbinò quella qualità indispensabile a fare di un capo militare un condottiero: l’umanità. Fu la mancanza di tale qualità, infatti, che lo indusse a compiere molte efferatezze durante la «normalizzazione» del Sud, tanto da meritarsi un appellativo che in Europa fu coniato per la prima volta: criminale di guerra. Qualcuno tra i suoi nemici (e il nostro uomo ne ebbe tanti nell’Italia post Risorgimento) ipotizzò che Govone fosse un esaltato non del tutto sano di mente. Questo noi non possiamo giurarlo, di certo doveva essere un uomo inseguito da molti spettri del suo passato e, forse, fu per questa ragione che il 26 gennaio del 1872 pose fine alla sua vita tirandosi un colpo di pistola alla testa.
Per quanto la città di Alba gli abbia dedicato una statua equestre e il suo ritratto sia stato collocato nella quadreria del Museo del Risorgimento, Giuseppe Gaetano Maria Govone è stato uno di quei personaggi la cui storia si snoda in chiaroscuro, ma di questo non dovremmo meravigliarci più di tanto perché l’Unità e l’annessione del Sud ebbero le medesime tinte.