Il Meridione d’Italia non è l’ultimo panda
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Sono quasi centosessant’anni che della propaggine mediterranea del nostro Paese si parla o con gli occhi coperti da stereotipi e luoghi comuni, o con ignoranza, o con disprezzo o, il che è peggio, con quella finta compassione che solitamente riserviamo all’estinzione dei panda, dimenticandoci che stiamo parlando della Magna Grecia, della terra di Archimede e di Teocrito, della terra dove per prima in Italia si coltivarono la democrazia rappresentativa, l’arte, la musica, la fisica, la filosofia, in altre parole la completa libertà intellettuale di tutti gli individui, senza nessuna distinzione, insegnandoci a ragionare con la logica
– Raffaele Ciaraffa * –
L’ennesimo piano per il Sud (Piano Sud 2030) presentato lo scorso 14 febbraio dal premier Giuseppe Conte a Gioia Tauro, è stato secondo me, un malriuscito tentativo di riconquistare alla Stato, ma forse soltanto al consenso politico, le popolazioni meridionali, tentativo malriuscito perché non inserito in una revisione storica dell’Unità italiana e della “questione meridionale”. Questa riflessione mi ha indotto a ripescare un vecchio lavoro risalente – pensate – a più di otto anni fa, e corredarlo di qualche nuova e più accurata ricerca attraverso la quale poter comprendere, senza veli, perché il divario Nord-Sud è tutt’ora operante nei fatti e perché la fintamente dibattuta questione meridionale resta tuttora in piedi, pur essendo trascorsi 159 anni dall’avvenuta unificazione delle due Italie.
Sono stato fortunato in questo prescelto percorso di indagine storica documentata (che, in verità, non è molto diversa da un’indagine di polizia) perché ho potuto leggere con attenzione “Terroni”, saggio dello scrittore-giornalista pugliese Pino Aprile e “Il sangue del Sud” di Giordano Bruno Guerri, scrittore, giornalista e storico toscano, oltre articoli ed editoriali di vari giornali. Nei testi citati gli autori – uno del Sud e il secondo del Centro Nord – evidenziano realtà e fatti avvenuti dal quel fatidico 1860 sino ai nostri giorni e che sono stati scientemente obliterati nel corso dei decenni, per motivi di opportunità e convenienze politiche mai onorevoli. Ma la storia non può essere nascosta perché, quando un popolo rinuncia a conoscere la sua storia, prima o poi ricade in essa. Insomma come annotò il filosofo franco-bulgaro Tzvetan Todorov, è quando si smette di nascondere un passato poco nobile che ci si può liberare della sua nefasta influenza.
Nel 1860 il Sud non voleva unirsi al Nord, perché tutto portava a prevedere che il Piemonte avrebbe – come in effetti avvenne – piemontesizzato il Sud, estendendo su di esso il suo potere militare, per deprivarlo delle sue istituzioni statuali, delle sue industrie, delle ricchezze, persino della sua gente. A tale riguardo può essere molto illuminante sapere che l’unificazione produsse al Sud un’emigrazione che, nel giro di un secolo portò all’estero circa tredici milioni di meridionali, mentre prima dell’Unità ad emigrare erano soltanto i settentrionali. Gli immigrati italiani che Garibaldi incontrò in Sud America e con i quali organizzò la famosa “Legione italiana” provenivano, infatti, tutti dall’Italia centrale e settentrionale.
Quando avvenne “l’unione a mano armata”, come l’ha definita Aprile, il Sud era il più industrializzato della penisola e in Europa era terzo, preceduto solo da Gran Bretagna e Francia; primi in campo, oggi diremmo, tecnologico; non brillava per la rete viaria e per alcune infrastrutture collaterali.
Perché a tutt’oggi esiste il divario Settentrione-Meridione? La risposta è come il riscoprire il famoso uovo di Colombo: perché il Nord vuole continuare a mantenere in posizione subalterna il Sud per conservare i cospicui vantaggi di potere ottenuto con la forza delle armi e con una legislazione che, nel corso degli anni, si è rivelata sempre più accondiscendente verso chi ha più forza sotto il profilo economico e politico. E questo una certa classe politica, sbilanciata nei fatti a favore del Nord, soprattutto nell’ultimo ventennio ha finto di non vedere.
Ma, all’ignavia dei politici tutt’ora in servizio permanente effettivo, fanno da controcanto voci, non tanto dal “sen fuggite”, di intellettuali, studiosi, politici di ieri e di oggi che, riferendosi al Meridione e ai meridionali, hanno detto: il già predecessore di Cavour, Massimo d’Azeglio – «La fusione coi napoletani mi fa paura, è come mettersi a letto con un vaioloso – I meridionali sono carne che puzza». Carlo Prampolini, esponente di spicco del Partito Socialista bolognese del decorso secolo: «Gli italiani si dividono in nordici e sudici». Uno scienziato del Nord: «Questi degenerati che aborrono l’acqua in terra e in mare, non possono giustificare la loro immensa sporcizia colla immensa miseria in cui il destino li ha fatti nascere». Dal che si evince che, se fosse dipeso da lui, avrebbe impedito loro di nascere. Un ministro dell’ultimo governo Berlusconi, invece, per risolvere i problemi del Sud, avrebbe visto bene l’invio di altri Mille, ovviamente tutti settentrionali.
Ometto le considerazioni-slogan dei leghisti del passato, perché ci risuonano ancora nelle orecchie e hanno fatto il giro del mondo per il loro carattere farneticante e truculento. A buona ragione i leghisti di un tempo potevano essere visti come gli epigoni di quei militari dell’Esercito sabaudo che, tra i mesi di luglio e agosto del 1861, misero a ferro e fuoco l’Abruzzo e il Molise, sconvolti da ribellioni e fucilazioni, rivolte e massacri. Ma fu nel Sannio, a Pontelandolfo ed a Casalduni, che avvenne qualcosa di molto simile a ciò che i nazisti fecero dopo l’attentato di Via Rasella in Roma, con la variante, in peius, di stupri di massa di donne violentate e fatte violentare in presenza di congiunti.
Lo spirito con il quale vennero consumati i massacri per rappresaglia scattata dopo l’uccisione di una quarantina di soldati piemontesi, nel corso di uno scontro a fuoco tra questi ultimi, peraltro mal comandati dal un proprio Ufficiale e una formazione mista di guerriglieri e popolazione fu tale che il deputato milanese Giuseppe Ferrari, filosofo e storico, volle recarsi in quei luoghi subito dopo gli eventi in menzione. Rientrato in sede, nel corso di una seduta parlamentare nel dicembre del 1861, tenne un discorso memorabile che oltre a costituire valida documentazione storica, rimane come un accorato invito a ripristinare un valore già allora desueto, cioè l’onestà individuale e politica. Ma, in presenza di un uditorio dal quale si levavano risate e schiamazzi, fu costretto a concludere con le seguenti parole: «Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi».
All’epoca dei fatti di sangue le cittadine di Pontelandolfo e Casalduni contavano rispettivamente cinquemila e tremila abitanti, mentre ancora oggi ne hanno la metà – (Segue).