Il King Kong della Casa Bianca
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La dirompenza del messaggio politico di Trump che, in verità, di politico non ha molto, ha prodotto una sorta di sanculottismo cerebrale nei suoi avversari che, da fighettoni intellettuali coast-to-coast, si stanno trasformando in esagitati nemici del Luigi XVI della Casa Bianca. Nella lotta senza quartiere al tycoon, gli ex fighettoni sono appoggiati da una sorta di Internazionale dei media che, cosa mai vista, pencolano al 99% a favore dei democratici
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Nella storia degli Stati Uniti vi sono stati due contigui presidenti la cui vicenda umana, politica e la congerie entro la quale essa si snodò, richiamano alla mente Donald Trump e tempi che l’America sta di nuovo vivendo: John Quincy Adams e Andrew Jackson. Sì, perché in ognuno dei due uomini v’era un po’ dell’America di oggi.
Il presidente John Quincy Adams era un politico sobrio, colto, con occhi vivaci, piccolo di statura, grassottello, quasi calvo, piuttosto in uggia alle masse ed all’intellighenzia del tempo, con una personalità soffocata da una patina di rigidità psichica che lo rendeva refrattario a quelle negoziazioni che sono il sale della politica. Come il tycoon, John Q. Adams innalzò le tariffe doganali per proteggere la nascente industria americana dalla concorrenza straniera.
Ad Adams succedette, alla Casa Bianca, Andrew Jackson: prestante e di alta statura, con gli occhi azzurri, i capelli fantasiosamente acconciati ed amava assumere quelle ricercate pose tribunizie che tanto piacevano alle masse americane dell’epoca. Jackson piaceva alle masse perché queste lo capivano, poiché – come quello di Donald Trump – il messaggio politico era semplice e diretto. L’uomo non era un gigante dal punto di vista politico e culturale e – nihil novi sub sole – era un litigioso donnaiolo, tant’è che lo perseguitò per tutta la vita l’accusa di essere un bigamo, avendo sposato una donna che all’epoca del matrimonio non aveva ancora divorziato dal primo marito.
Eppure, per quanto Trump sia così simile a Jackson sul piano fisico ed operativo, gli è stato riservato lo stesso destino di Adams del quale è, peraltro, la perfetta antitesi sia politica che umana. In fondo, l’imprevisto successo di Donald Trump contro Hillary Clinton alle presidenziali del 2016 fu dovuto proprio al fatto che nella sua personalità si agitasse un Jackson elevato all’ennesima potenza! Eppure l’establishment gli sta facendo una lotta senza quartiere come fece con Adams. Come mai?
La causa di tale paradosso ha un nome: politically incorrect. Sì, perché l’entrata in scena di Donald Trump è stata per la politica dell’America intellettuale più scorretta di una rumorosa flatulenza in chiesa dopo i diversi (finti) perbenisti che lo hanno preceduto alla Casa Bianca, dalla buonanima di Bush padre ad Obama. Costoro, infatti, muovendosi sempre sul filo di un apparente politically correct, e ben lontani dall’essere capaci di affrontare i problemi derivanti dalla mutazione degli equilibri geopolitici mondiali a seguito della caduta del muro di Berlino, hanno preferito usare il metodo del “congelamento”.
La dirompenza del messaggio politico di Trump che, in verità, di politico non ha molto, ha prodotto una sorta di sanculottismo cerebrale nei suoi avversari che, da fighettoni intellettuali coast-to-coast, si stanno trasformando in esagitati nemici del Luigi XVI della Casa Bianca. Nella lotta senza quartiere al tycoon gli ex fighettoni sono appoggiati da una sorta di Internazionale dei media che, cosa mai vista, pencolano al 99% a favore dei democratici, rendendo così un pessimo servizio al pluralismo dell’informazione e, soprattutto, alla verità dei fatti, mettendo la sordina, addirittura distorcendole, a molte iniziative del presidente. La riprova di tutto questo possiamo trovarla anche in tre soli esempi.
Quando l’anno scorso Trump uscì dagli accordi di Parigi sul clima, lungi dallo spiegarsene le ragioni, come ad esempio l’esosità del contributo americano erogato all’Onu per il “Fondo verde per il clima”, i democratici amplificarono acriticamente la dichiarazione – in proposito – di quel saccente del presidente Macron, il quale aveva sentenziato che «Gli Stati Uniti hanno voltato le spalle al mondo».
A proposito dei dazi sulle merci importate, in special modo quelle dalla Cina, nessuno tra i democratici ha ricordato che l’economia statunitense non può più permettersi di continuare a reciprocare commercialmente con la Cina con le stesse regole di quando questa era un Paese in via di sviluppo.
E sui rapporti tesi con la Germania di Angela Merkel pochi hanno voluto spiegare la pretesa di Trump affinché la Germania aumenti il budget per la sua difesa e per la Nato. Eppure questa pretesa fonda su di una valutazione condivisibile perché molto realistica: quale senso ha il fatto che la Germania, alleata Usa in Europa, continui a comprare gas naturale russo invece che acquistarlo negli States, portando così preziosa valuta a Putin, dal quale gli Usa dovrebbero eventualmente difenderla con le tasse e con la vita dei contribuenti americani?
Purtroppo i democratici a stelle e strisce stanno avendo la medesima evoluzione dei “democratici” italiani i quali, pur di far cadere il governo in carica, stanno appoggiando tutti quelli che remano contro il loro stesso Paese, entrambi dimentichi di quanto affermò Stephen Decatur: «Our country! In her intercourse with foreign nations, may she always be in the right; but our country, right or wrong».
Che piaccia o meno ai democratici americani ed ai benpensanti globali, Donald Trump, magari facendolo a modo proprio, ama l’America, gli americani, le loro conquiste, il loro futuro e le loro libertà, molto più di quanto non le abbia amate qualche Premio Nobel che l’ha preceduto alla Casa Bianca.