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Il cassonetto della follia

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Che diavolo sta succedendo, perché si uccide così facilmente o, quando va bene, si abbandonano i neonati alla pietà pubblica? Eppure, a riguardo della maternità nel nostro Paese esiste una legge che consente e norma l’interruzione di gravidanza, come dire che un figlio non si deve metterlo al mondo per forza per poi buttarlo nel cassonetto dei rifiuti

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Una settimana fa a Milano, all’interno di un cassonetto per la raccolta degli abiti usati, è stato trovato il corpo senza vita di una neonata. Lo scorso 4 maggio, a Bergamo, un’altra bambina appena nata è stata abbandonata (viva stavolta) nella culla termica situata all’esterno della Croce Rossa, come dire l’equivalente della vecchia ruota dei brefotrofi di una volta. La madre, o chi ve l’ha depositata, ha lasciato un bigliettino il cui tenore non era molto diverso da quello che spesso si trova attaccato alla porta dei canili quando vi abbandonano una cagnetta: «Non posso occuparmi di lei». Il futuro di un essere umano, che non ha neppure chiesto di venire al mondo, condensato in un rigo dal quale non traspare neppure un barlume di dolente ineluttabilità!

Un po’ più in là, ma sempre fuori l’uscio di casa nostra, in una scuola primaria di Belgrado un alunno tredicenne, Kosta Kecmanovic, ha ucciso otto compagni e una guardia giurata a colpi di pistola, ferendo anche un’insegnante e altri sei coetanei. Considerato che la maggior parte delle pistole moderne possono contenere fino a 15 cartucce nel caricatore, dobbiamo dedurre che l’adolescente serbo abbia fatto centro a ogni colpo, con la freddezza di uno spietato killer, senza un fremito inibitorio, senza provare il minimo orrore per ciò che stava facendo.

Ma lasciamo la ricerca delle cause contingenti di questa ennesima strage degli innocenti alle autorità serbe e poniamoci, invece, una domanda: che diavolo sta succedendo, perché si uccide così facilmente o, quando proprio va bene, si abbandonano i neonati alla pietà pubblica? Eppure, a riguardo della maternità nel nostro Paese esiste la legge 194/78 che consente e norma l’interruzione di gravidanza, come dire che un figlio non si deve metterlo al mondo per forza per poi buttarlo nel cassonetto dei rifiuti.

Inquadrata così la questione sembrerebbe semplice da compenetrarsi e, invece, non lo è affatto: dal momento in cui si decide di mettere al mondo un figlio fino a quando nasce passano nove mesi, e in tale lasso di tempo possono accadere molte cose. Si può perdere il posto di lavoro, può finire un amore e, di conseguenza, può esservi il sopravvenuto rifiuto ad accettarne il frutto da parte di uno o di entrambi i procreatori.

Sappiamo benissimo che esiste tutta una serie di enti che, in teoria, sono preposti ad aiutare una donna incinta mischiando, così, la soluzione di un problema con la sua burocratizzazione. Un esempio a riguardo?

Dopo la ginecologa (per chi ci va…) chi è il primo interfaccia di una donna incinta? Il medico di base, che nel caso non può fare altro che prescrivere esami e visite specialistiche. Dopo bisogna affrontare il problema della prenotazione che di solito tende a tempi biblici e, infine, la trafila per il pagamento del ticket. Sicché, se una donna incinta fosse piena di dubbi, di angustie e d’incertezze, alla fine di questo infernale percorso potrebbe essere addirittura disperata nel caso non abbia sottomano una ginecologa che sia anche un po’ psicologa, un marito collaborativo, una madre disponibile o una sorella disimpegnata.

La verità è che una donna incinta, che avrebbe bisogno di un supporto multidisciplinare e costante da parte delle strutture sociosanitarie dello Stato è, in realtà, una persona lasciata sola che, per questa ragione, viene spesso sopraffatta dalla paura dei cambiamenti che produrrà nella sua vita la nascita di un figlio. Per tale motivo alcune di esse ubbidiscono all’istinto di eliminare il “problema” determinando, così, uno dei paradossi più stridenti della nostra società: alcune coppie ricorrono alla discutibile pratica dell’utero in affitto per poter avere un figlio a ogni costo e altre al cassonetto della monnezza per disfarsene! In fin dei conti qualcosa del genere è successo anche al baby killer di Belgrado che non è riuscito a concepire nulla di meglio che il “disfarsi” dei compagni che pare lo avessero bullizzato… ma mentre questo accadeva si era confrontato con qualcuno che non fosse lo smartphone? Crediamo proprio di no: era solo anche lui.

Senza portarla per le lunghe (a questo penseranno i vari talk show), possiamo sostenere che il male che ci sta consumando ha un nome ben preciso ed è in mezzo a noi tutti i giorni, che ci sta oscurando l’anima e la ragione. Il suo nome è “solitudine”. Ci direte: «Ma come, in una società iper-massificata ha senso parlare di solitudine?». Sì, anzi, ha senso soprattutto in una società massificata perché non è nel numero delle persone che ci circondano la terapia capace di combatterla ma nella loro qualità. Beh, allora…

(Copertina di Donato Tesauro)

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