Il 25 luglio di Mussolini, del re, di Badoglio e di nonna Giovannina
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Il 25 luglio del 1943 non fu la vittoria di quegli antifascisti che se n’erano stati nascosti in Vaticano (qualcuno anche vestito da prete), non di chi rientrerà in Italia dalla Russia sotto la protezione dalle armate Alleate, ma di quelle donne che, senza imbracciare neppure un bastone, affrontarono le dure traversie della guerra con la dignità e il piglio di veri soldati, facendo ogni tipo di lavoro onesto per tirare avanti ogni giorno sotto le bombe
– Enzo Ciaraffa –
Mentre la guerra infuriava e gli alleati (da due settimane sbarcati in Sicilia) avevano appena bombardato anche la città santa del cristianesimo, Roma, nella notte tra il 24 e il 25 luglio del 1943, diciannove dei ventotto gerarchi riuniti in quella caricatura di Parlamento che era il Gran Consiglio del fascismo, con l’avallo del re che aveva dato l’avallo all’operazione, sfiduciarono Mussolini con l’illusione di riuscire a smarcarsi da lui e dal ventennio, prima che la barca affondasse del tutto.
A ciò seguì l’arresto di quello che era stato il capo del governo italiano per oltre vent’anni a Villa Savoia, nella casa del re d’Italia, di colui che lo aveva fatto primo ministro nel 1922… una scena che a immaginarla sarebbe stata da golpe nel Messico dei tempi di Pancho Villa.
Non che Mussolini non andasse fermato a ogni costo e con ogni mezzo, però, dopo vent’anni di dittatura e di stravolgimento di ogni istituto liberale, un po’ di decenza istituzionale non avrebbe guastato, specialmente pensando “al dopo”, cioè al ripristino effettivo dello Statuto (la Costituzione di allora) e all’inevitabile lavacro penitenziale di Vittorio Emanuele III per salvare la monarchia con l’abdicazione, una punizione fin troppo blanda per avere avallato le leggi razziali e tutte le guerre dichiarate dal fascismo.
E, invece, il 25 luglio del 1943 le cose andarono in tutt’altro modo perché stavano già incubando i germi dello sfacelo dell’8 settembre, e ciò per una ragione che si riprodurrà molte volte anche nell’Italia repubblicana: la classe dirigente pensava di potersi riciclare senza pagar dazio dopo la sua ventennale collaborazione col fascismo e con Mussolini. Anzi, da come si mosse in quella calda estata del 1943, siamo autorizzati a pensare che il re d’Italia – un vecchio arnese dell’Ottocento – immaginava di poter conservare il passato regime anche senza Mussolini e la sostituzione di quest’ultimo con il maresciallo Badoglio, un altro personaggio equivoco emerso dal giurassico della politica italiana, rinvigorisce il sospetto.
A comprovare le vere intenzioni del re, furono i primi provvedimenti emanati dalla nuova dittatura militare badogliana d’impronta fascista, come il controllo militare delle piazze, fatto che impedì lo spontaneismo di una salutare mobilitazione popolare contro fascisti e tedeschi che – bisognava metterlo in conto – una volta superato lo smarrimento iniziale si sarebbero riorganizzati. Badoglio, in sovrappiù, invece di predisporre l’esercito contro gli ex camerati, lo schierò contro gli italiani, ordinando ai comandi militari di assumere i pieni poteri nel caso di «Qualunque perturbamento dell’ordine pubblico, anche minimo e di qualsiasi tinta». E siccome non gli sembrava di essere stato abbastanza chiaro, il futuro fuggitivo di Brindisi ingiunse di porre la massima cura nel mostrare «Grinta dura e atteggiamento estremamente risoluto, che aprano il fuoco a distanza, anche con mortai e artiglieria, senza preavvisi di sorta».
Insomma, mentre gli orfani del fascismo, i nazisti, gli alleati e i comunisti titini si accingevano a fare a pezzettini la nostra bella Italia, la principale preoccupazione di Badoglio era di far cannoneggiare gli italiani che volevano rivoltarsi contro il nazifascismo. Grottesca la parte finale del suo proclama alla nazione quel 25 luglio di ottant’anni fa: «La guerra continua». Col piccolo dettaglio che, con la vaghezza dei personaggi che sono soliti tenere i piedi in molte scarpe, il maresciallo non spiegò agli italiani “contro chi” dovessero continuare la guerra, essendo appena uscito di scena colui che l’aveva voluta e dichiarata.
Purtroppo, Badoglio – proprio perché era convinto come il re di poter perpetuare il regime anche senza il duce – non fece fucilare subito Mussolini per non guastarsi subito con l’apparato fascista, senza capire che l’eliminazione di quel personaggio oggettivamente ingombrante ci avrebbe (un poco) riaccreditati presso gli alleati e avrebbe evitato al Paese una brutta guerra civile e una lacerazione ideologica purtroppo ancora esistente.
Ma io dedico questo ricordo del 25 luglio 1943 non a quegli antifascisti che se n’erano stati nascosti in Vaticano (qualcuno anche vestito da prete), non a chi rientrò in Italia dalla Russia sotto la protezione dalle armate alleate, ma a mia nonna Giovannina che, diventata vedova in quegli anni e con cinque ragazze da portare avanti, affrontò le dure traversie della guerra con la dignità e il piglio di un vero soldato, facendo ogni tipo di lavoro onesto per tirare avanti, ogni giorno sotto le bombe almeno fino alle quattro giornate di Napoli.
L’accadimento di quel giorno di ottant’anni fa nei foschi palazzi romani del potere non le portò la pace ma soltanto l’aumento dei generi di prima necessità, acquistabili alla borsa nera per poter sfamare le sue figlie. Tuttavia, alla fine sarà lei che, con milioni di donne silenti e coriacee come lei, vincerà la guerra senza aver mai imbracciato un’arma, perché l’Italia delle famiglie unite intorno ai genitori, quella che avrebbe fatto risorgere il Paese dalle macerie della guerra, sopravvisse grazie a loro.
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