I molti perché della tragedia di questi giorni
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Per non incorrere negli stessi accidenti giudiziari degli scienziati dell’Aquila, ogni qualvolta che in Italia si annuncia una turbolenza atmosferica anche in linea con la stagione, va a finire così: i meteorologi fanno previsioni al rialzo, previsioni che la Protezione civile, rialzandole ancora un pochino, invia alle Prefetture, le quali con minacciosa tempestività le sparano ai sindaci che, poveretti, possono soltanto allertare la Protezione civile cittadina, costituita in genere da pensionati piuttosto avanti con l’età
– Enzo Ciaraffa –
Tra il 5 e il 6 maggio del 1998, anche a causa del fatto che in appena tre giorni erano caduti trecento millimetri di pioggia, un movimento franoso di due milioni di metri cubi di fango si staccò dalle coste del monte Pizzo d’Alvano e investì gli abitati di Sarno, Quindici, Siano, Bracigliano e San Felice a Cancello. Nella circostanza i morti furono 160, incluso un eroico vigile del fuoco. Come sempre in casi del genere, le piogge torrenziali furono soltanto la concausa del disastro, perché la causa prima fu quella di sempre, ovvero la trascuranza dell’assetto territoriale da parte delle pubbliche amministrazioni, l’abbandono delle culture agricole eradicanti e la scomparsa degli alberi in generale.
Nella Sarno di vent’anni fa si profilò uno scenario che aveva avuto un anticipo nelle opere di soccorso a favore delle popolazioni del Friuli atterrate dal tremendo terremoto che le aveva colpite il 6 maggio del 1976 dove, al cospetto di una Protezione civile che esisteva allora soltanto sulla carta, il commissario straordinario ad hoc nominato, Giuseppe Zamberletti, riuscì a far miracoli. Ciò fu possibile perché, oltre ai vigili del fuoco ed alla Croce Rossa, egli poté far leva sulle forze armate, in quel caso sulle divisioni Mantova e Ariete, alla quale apparteneva lo scrivente.
Anche a Sarno, sotto la regia del prefetto di Napoli, nel 1998 prese in mano le redini dei soccorsi il comando del 2° Fod di San Giorgio a Cremano, all’epoca comandato dal generale Ferruccio Boriero, del quale lo scrivente era aiutante di campo. Ebbene, il generale Boriero, resosi conto che la marea di fango avanzava inesorabilmente e che minacciava di sommergere un rione di Sarno ritenuto sicuro fino a quel momento, i cui abitanti non volevano lasciare le loro case, fece una cosa – l’unica che si poteva in quel momento fare – che oggi sarebbe improponibile: fece mettere un megafono e tre razioni kappa in auto, uno per lui, una per me e l’altra per il conduttore, perché era deciso a passare anche la notte a Sarno, pur di mettere in salvo quella gente anche contro la loro volontà. Vi riuscì con onesta e franca capacità di persuasione, e con la collaborazione dei Carabinieri, nel ruolo di crocerossine, i quali fecero amorevolmente salire gli sfollati sulle corriere militari e li accompagnarono negli alberghi all’uopo predisposti. Mentre, inesorabile, avanzava la marea di fango.
Ecco, un’operazione del genere oggi sarebbe impossibile perché, in presenza delle medesime circostanze, il generale Boriero si sarebbe beccato come minimo un’inchiesta della Magistratura per l’ipotesi del reato di sequestro di persona. Sì, perché – oltre alle citate carenze ed omissioni dei pubblici poteri – la Magistratura ha avuto un ruolo, del tutto imprevedibile in verità, nella previsione dei disastri ambientali, un ruolo che talvolta è stato anche propulsivo ma che di certo ha contribuito a far nascere un perverso modus operandi dei diversi attori che devono prevedere e prevenire i disastri ambientali. La genesi di quella che potremmo definire una perversione operativa, ha anche un luogo e una data di nascita: L’Aquila nella notte tra il 5 e il 6 aprile del 2009.
Quella notte, come molti ancora ricorderanno, un violento terremoto colpì la provincia abruzzese e vi fece 309 morti, oltre a distruggere il capoluogo e molte cittadine della valle del fiume Aterno. Ebbene, nella circostanza la Magistratura mise sotto inchiesta gli scienziati della Commissione grandi rischi perché avevano rassicurato la popolazione invece di allertarla e, per tale comportamento, nel processo di primo grado essi furono condannati a sei anni di reclusione per omicidio colposo e lesioni.
All’epoca insorse la comunità scientifica nazionale ed internazionale che, in una lettera all’allora presidente Napolitano, definì assurde quelle accuse perché non sarebbe stato assolutamente possibile predire un terremoto. Ma Willy Aspinall, professore di scienza del rischio e del pericolo naturale presso l’università britannica di Bristol, fu anche più tranchant: «Se gli scienziati dell’Aquila saranno giudicati colpevoli finiremo nelle mani dei ciarlatani e dei lunatici». Mai profezia si rivelò più drammaticamente azzeccata!
Infatti, dal 2009, per non incorrere negli stessi accidenti giudiziari degli scienziati dell’Aquila, ogni qualvolta che in Italia si annuncia una turbolenza atmosferica anche in linea con la stagione, va a finire così: i meteorologi fanno delle previsioni negativamente al rialzo, previsioni che la Protezione civile, rialzandole ancora un pochino, invia alle Prefetture, le quali con inquietante tempestività le sparano ai sindaci che, poveretti, possono soltanto allertare la Protezione civile cittadina, costituita in genere da pensionati avanti con l’età. Poi, per fortuna, il più delle volte non succede niente.
Questo modus operandi ha fatto sì che le popolazioni locali non prendano più sul serio i cosiddetti allerta meteo, neppure quando si annunciano effervescenze atmosferiche (realmente) pericolose. Questa è l’eterna storia del pastore e del lupo con dei risvolti che, talvolta, sono più tragici della favola di Esopo.
Se a tutto questo aggiungiamo il corollario di comportamenti incivili di moltissimi cittadini, la trascuranza dei problemi territoriali, le collusioni, la corruzione e le omissioni dei pubblici poteri, si capisce meglio di chi è figlia la tragedia ambientale che in questi giorni sta sconvolgendo la nostra penisola.