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Francesco Solimene, il frate sui ponteggi

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Francesco Solimene
Coloro che oggi riuscissero avventurosamente ad entrare nella malmessa chiesa Madonna delle Grazie, situata a ridosso di quella parte del centro storico di Napoli un tempo conosciuto come Caponapoli, non immaginerebbero che l’interno di quel tempio era tra le più belle espressioni del Rinascimento napoletano che, sviluppatosi sotto la corte dei sovrani angioini e aragonesi pose, almeno sul piano artistico, il Regno di Napoli al livello di Firenze e Milano

– Enzo Ciaraffa –

Pur dovendomene servire per ragioni professionali, confesso a quattr’occhi di non avere in grandissima estimazione lo strumento informatico per antonomasia, il computer, perché lo considero il primo killer dei (reali) rapporti umani e così, quasi per difendermene, mi ritrovo sempre più spesso in giro per i mercatini di vecchi libri, tra gente reale e testi che si possono toccare. Che volete, mi piace voltare le pagine e avere la carta in mano quando leggo, specialmente se ingiallita dal tempo.

Ebbene, durante questo mio peregrinare mi è capitato sotto gli occhi un libro edito nel 1956, di un conduttore radiofonico di Radio Napoli degli anni Cinquanta, il noto giornalista, regista e critico cinematografico Roberto Minervini, titolato “Incontri del sabato”, che ovviamente ho acquistato e subito letto. È stato così che ho potuto fare la conoscenza con l’originale frate – restauratore dell’ordine di San Girolamo: Francesco Solimene, un tipo che, pur non trascurando il suo magistero sacerdotale, armato soltanto di pennello, raschietto, lametta da barba e qualche acido riportò l’interno di una chiesa napoletana al suo antico splendore.

Coloro che oggi riuscissero avventurosamente a entrare nella malmessa chiesa della Madonna delle Grazie, situata a ridosso del centro storico in una zona della città conosciuta un tempo anche come Caponapoli, individuabile tra la stessa piazza Madonna delle Grazie e l’Ospedale degli Incurabili, non immaginerebbero che all’interno il tempio era tra le più belle espressioni di quel Rinascimento napoletano che, sviluppatosi sotto la corte dei sovrani angioini e aragonesi, almeno sul piano artistico, pose il Regno di Napoli al livello di Firenze e Milano. Eppure, fin dalla fine dell’Ottocento, l’interno era inguardabile perché, col passare degli anni, sugli affreschi originari della navata centrale e delle dodici cappelle laterali, si erano sovrapposte quintalate di stucco e d’immagini votive, tipiche di un barocco tardivo e grossolano ispirato alla fede semplice (e un po’ paganeggiante) del devoto popolino napoletano, laddove si conservavano decorazioni risalenti al Cinquecento e opere d’insigni artisti quali, per citarne soltanto alcuni, il pittore Domenico Antonio Vaccaro, gli scultori Girolamo D’Auria, Giovanni Malvito e Giovanni da Nola.

Nel 1890 la visione di tale stravolgimento sconvolse la sensibilità artistica di un giovane studente di teologia, Francesco Solimene, il quale, quando pose piede per la prima volta nella chiesa, si mise in testa di riportarne alla luce gli antichi affreschi. Un progetto alquanto ambizioso per un giovane che non era né ingegnere, né architetto e neppure ancora un religioso: ma Gesù Cristo non aveva detto che la fede è capace di spostare le montagne? E magari (e lo sostengo da agnostico…) aveva ragione perché, una volta presi gli ordini religiosi, padre Solimene fu nominato curatore proprio della chiesa della Madonna delle Grazie.

Nonostante fosse cosciente del fatto che l’impresa era a dir poco ardita, il frate nel 1923 volle iniziare lo stesso un lavoro che sarebbe durato trent’anni e che avrebbe dell’incredibile anche oggi. Sicché, armato di pochi e semplici attrezzi, diede inizio alla “purificazione estetica” del luogo dedicato alla Madonna delle Grazie, la quale dovette posare la mano sul capo di quel monaco un po’ incosciente perché soltanto una forza metafisica poteva sospingere il frate a tale impresa in un’epoca in cui la tecnica del restauro, non potendo avvalersi degli attuali ausili elettronici, era piuttosto primitiva. Tra le tante cose infatti, quel tipo di lavoro era manchevole di piattaforme mobili capaci di rendere più agevole la delicata opera di un uomo che, per oltre trent’anni, si sarebbe arrampicato ad altezza della navata ogni giorno.

Così passavano gli anni e nella chiesa il tempo scorreva calmo e pacifico, anche se fuori segnava a fosche tinte la storia della città e dell’Italia: la partenza da Napoli della marcia su Roma il 24 ottobre del 1922 e la controversa morte dello scomodo sindacalista fascista napoletano Aurelio Padovani. Ma i tronfi sproloqui di Mussolini dal famigerato balcone, la soppressione dell’ordine al quale apparteneva, la guerra d’Abissinia, le sanzioni, e perfino la visita di Hitler a Napoli, giunsero come flebili eco nella chiesa della Madonna delle Grazie dove frate Solimene ormai quasi secolarizzato, portava avanti l’opera di rimozione del sudario di stucco. Durante la Seconda Guerra Mondiale l’ex frate gerolamino non scendeva dai ponteggi, non smetteva di lavorare neppure quando gli Alleati venivano a bombardare Napoli, perché non voleva lasciare sola la sua chiesa nel momento del pericolo. Infatti, fino al 1943, in pratica fino alle Quattro Giornate di Napoli, dormì su di una brandina collocata dietro il portone della chiesa.

Purtroppo, per me le tracce di Francesco Solimene si perdono nel 1953 quando, alla bella età di ottantatré anni, scese malvolentieri dalle impalcature, ma poteva ritenersi pago e orgoglioso di aver restituito all’antico splendore buona parte dell’interno di una delle più belle chiese di Napoli. Pare che il monaco rà Maronna, come lo chiamavano a Caponapoli, sia morto nello stesso anno della sua messa ariposo, ma ignoro il luogo della sua sepoltura. Di questo limite il buon frate, che possiamo definire un’artista (disarmato) del restauro, mi avrà perdonato. Non giurerei, però, sul fatto che egli abbia perdonato anche coloro che hanno lasciato cadere in rovina la “sua” chiesa, invece di recuperarla se non proprio all’esercizio religioso almeno a quello civico come, per esempio, trasformarla in una biblioteca universitaria per opera del Comune o della curia locale.

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