Cadorna autore e riparatore di un disastro
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Caporetto non diventò una irrimediabile debacle perché i nostri soldati seppero attingere, ancora una volta, alla loro intima essenza emotiva per sopperire alle deficienze dei loro capi, deficienze che – sia chiaro – furono più o meno di tutti i generali degli eserciti in lotta, per un limite per così dire generazionale, essendo essi stati formati per le cariche di cavalleria e non per una guerra con mitragliatrici, aerei e carri armati
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3 novembre 2018 – Caporetto, ma come si arrivò a quella debacle militare? Dopo la Grande Guerra, in verità, vi furono varie inchieste per accertare perché la 2^ Armata del generale Capello, che pure contava 700.000 uomini, si fosse liquefatta in poche ore consentendo così lo sfondamento di Caporetto, ma furono tutte inchieste accomodanti con uno dei due principali responsabili, Pietro Badoglio, e particolarmente severe con Cadorna e Capello. Pertanto, ci fidiamo più di quanto scrissero sull’argomento coloro che vissero quei momenti in prima persona, come l’allora tenente, poi generale, Emilio Faldella, secondo il quale le cose andarono all’incirca come segue.
Quando il comando austriaco ideò un’azione contro l’ala sinistra della 2^ Armata, i loro alleati tedeschi dirottarono sul nostro fronte sette divisioni scelte, ben munite di artiglieria. Il progetto austriaco era, inizialmente, di costringere gli italiani a sloggiare dalle posizioni conquistate nella primavera precedente, ma i tedeschi, che perciò sono tedeschi, ampliando la manovra progettarono di risalire il fondovalle dell’Isonzo per assestare il colpo mortale in una località sconosciuta ai più che si trovava tra Tolmino e Plezzo: Caporetto. Ciò con l’intento di chiudere definitivamente la partita con l’Italia e poter, così, risucchiare truppe austriache sul versante francese, che a loro stava molto più a cuore e dove iniziavano a essere in affanno a causa dell’arrivo degli americani.
Il lavoro d’infiltrazione che i tedeschi fecero a Caporetto fu inizialmente svolto da reparti eterogenei che oggi definiremmo gruppi di combattimento, uno dei quali era comandato da un giovane tenente tedesco che nel corso della nostra storia incontreremo ancora, Erwin Rommel.
Il 24 ottobre del 1917 i reparti che via via seguivano quei gruppi, appoggiati dall’artiglieria, concentrarono la loro azione su di un ristretto segmento del nostro schieramento, riuscendo ad aprire una breccia nella quale s’infilarono facendo da apripista alle unità che li seguivano. Fino a quel momento non era stato uno sfondamento ma soltanto un tentativo di aggiramento ancora lontano dal realizzarsi, ma questo bastò a dare ai generali italiani la certezza di essere stati aggirati. Né migliore prova diede l’artiglieria del XXVII corpo d’armata alla quale Badoglio aveva proibito di sparare senza un suo ordine. Difatti mentre i tedeschi dirigevano su Caporetto, i suoi cannoni tacquero perché lui era assente. Ironia della storia, il colonnello comandante dell’artiglieria di Badoglio, quello che non cannoneggiò gli austro tedeschi, aveva un cognome che era una beffa del destino: Cannoniere.
Tuttavia Caporetto non diventò un irrimediabile disastro perché i nostri soldati seppero attingere, ancora una volta, alla loro intima essenza emotiva per sopperire alle deficienze dei loro capi, deficienze che – sia chiaro – furono più o meno di tutti i generali degli eserciti in lotta per un limite per così dire generazionale. Essi, infatti, essendo per la maggior parte nati intorno agli anni cinquanta dell’Ottocento erano stati addestrati per le cariche di cavalleria e non certo per una guerra con mitragliatrici, aerei e carri armati. Ma, nonostante stessero disordinatamente rinculando non meno di 400.000 sbandati appartenenti principalmente all’armata di Capello, possiamo dire che nel complesso i fanti reagirono a Caporetto in modo migliore della classe dirigente, sia quella in divisa, sia quella in borghese. Badoglio, che nel momento cruciale del disastro non si trovava al suo posto di comando (si sospettò che fosse andato a un appuntamento galante nelle retrovie) scorato si accasciò con la testa tra le mani. E ne aveva ben donde! Se – come gli era stato ordinato – avesse provveduto ad estendere l’ala sinistra della sua unità fino al fondovalle dell’Isonzo, avrebbe potuto intercettare e fermare a cannonate i tedeschi che vi sfilavano in direzione di Caporetto. Eppure Badoglio supererà indenne la catastrofe che aveva contribuito a provocare e finirà da comandante di armata una guerra che aveva iniziato da Colonnello.
Cadorna, invece, dopo avere scaricato la colpa del disastro militare sulla 2^ Armata il che era più che giusto salvo che lui era il comandante anche di quella armata, mandò letteralmente a cagare il ministro per l’Assistenza ai soldati, Leonida Bissolati il quale – a onta del nome che portava – gli aveva proposto di suicidarsi insieme per non sopravvivere alla sconfitta che ormai dava per certa. Insomma il quadro che in quei frangenti emerse non depone a favore della saldezza dei nervi di chi ebbe la responsabilità della conduzione di quella guerra e del Paese, fatta eccezione per Cadorna. Sì, Cadorna. Nonostante i suoi tanti errori, nonostante le camarille che si erano costituite presso il suo Comando e le cui fila erano tirate da Badoglio, il generalissimo fu l’unico che nelle convulse ore di Caporetto mantenne il sangue freddo grazie al quale riuscì a far approntare, in breve tempo, uno schieramento difensivo lungo il corso del fiume Piave contro il quale si sarebbe gradualmente stemperata l’offensiva austro-tedesca. Per vincere la guerra Diaz, in realtà, non fece altro che perfezionare il dispositivo difensivo approntato dal suo predecessore Cadorna.
Immagine in evidenza: la ritirata di Caporetto