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Benedetto XVI, un papa scomodo per la Chiesa e per il sistema di potere

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Benedetto XVI
Qualche mese prima di diventar papa, Ratzinger diede il benservito ai fornicatori, ai mestatori e agli accaparratori di super attici, rendendosi nemici i molti che della Chiesa intendevano servirsi più che servirla. Ma i papi coerenti, dogmatici e di rigorosa fede, di solito i nemici non se li fanno soltanto dentro la Chiesa ma anche fuori di essa, specialmente in tempi in cui l’unico punto di riferimento esistenziale degli esseri umani sembra essere diventato il loro ego

– Enzo Ciaraffa –

La matassa del nostro destino terreno, pur essendo intricata e piena di nodi, si dipana in un filo così lineare da far pensare, anche al più agnostico degli uomini, che dall’altra parte il capo sia in mano a una Volontà Superiore. Oggi, infatti, mi trovo a scrivere di Joseph Aloisius Ratzinger al quale fui presentato il 19 marzo del 1995 ad Agnone, lo stesso che, in veste di papa poi, avrebbe avuto un pensiero per me diciott’anni dopo, poco prima di lasciare il seggio petrino. Ricordo che ciò avvenne dopo che gli avevo fatto pervenire la copia del periodico che allora dirigevo, riportante un ricordo del figlio di Hans Leutner, lo storico Mastro Birraio della Poretti di Induno Olona, il quale da studente aveva frequentato il sacerdote Joseph Ratzinger quando questi era stato cappellano dell’Istituto Tecnico di Freising.

Alla notizia dell’elevazione al soglio pontificio dell’anziano cardinale Ratzinger col nome di Benedetto XVI fui, perciò, molto contento, anche se ebbi la sgradevole sensazione che il Conclave avesse scelto un papa di transizione, per avere il tempo di consolidare gli equilibri dei poteri interni al Vaticano, prima dell’arrivo di un papa “di lungo corso”. Non mi spiegai, infatti, perché una casta ecclesiale oltremodo secolarizzata – di come non se ne vedeva dal Rinascimento – avrebbe dovuto eleggere un papa del quale temeva il rigore dogmatico, ma probabilmente questo era considerato il male minore stante la (da loro sperata) breve durata della permanenza di Benedetto XVI a capo della Chiesa in ragione dell’età avanzata.

Sì, perché di quale pasta fosse fatto il nuovo papa le gerarchie ecclesiali lo sapevano da anni e comunque Ratzinger non perdeva occasione per ricordarlo loro, come accadde alla processione del Venerdì Santo 2005 che presiedette in veste di decano dei cardinali: «Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa!».

E così, qualche mese prima di diventar papa Joseph Ratzinger diede il benservito ai fornicatori, ai mestatori e agli accaparratori di super attici, rendendosi nemici i molti che della Chiesa intendevano servirsi più che servirla. Ma i papi coerenti e di rigorosa fede i nemici non se li fanno soltanto dentro la Chiesa ma anche fuori di essa.

Infatti, pochi giorni prima di essere scelto dal Conclave, il defunto papa emerito, nel corso di una conferenza, bacchettò anche l’Unione Europea per il suo eccesso di laicismo del tutto immemore delle radici giudaico-cristiane del Vecchio Continente. Come dire che, tramite l’Ue, diede uno schiaffo al sistema di potere globalizzato che già stava prendendo il surrettizio controllo del mondo. Anche perché, a differenza dell’attuale papa che ha un approccio rusticano con la teologia, Ratzinger aveva capito che il vero problema della Chiesa del terzo millennio non erano tanto l’immigrazione, l’islamismo egemonico, oppure la mancanza di vocazioni come spiegò l’8 aprile del 2005, proprio nel corso della celebrazione dei funerali di Giovanni Paolo II: «… la dittatura del relativismo, che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».

Insomma, con le sue esortazioni morali, in un’era in cui la morale era già quella volatile dei social, il defunto papa tagliò le gambe al suo pontificato ancor prima di averlo ottenuto, facendo lui per primo i conti con il fondamentalismo – e non soltanto quello islamista – il 12 settembre del 2006 quando parlò all’Università di Ratisbona a proposito dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo.

Nella circostanza, Ratzinger accennò concetti storici così equilibrati da poter essere condivisi da qualsiasi credo religioso che predichi la tolleranza e la pace tra gli uomini: «…senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il Libro e gli increduli, egli [Manuele II Paleologo], in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava […] Dio non si compiace del sangue, non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio…».

Che il clero islamico equivocasse sulle parole pronunciate da Benedetto XVI a Ratisbona era prevedibile, lo era un po’ meno il fatto che, nella circostanza, il mondo della cultura, della politica e le stesse gerarchie ecclesiastiche prendessero le distanze da lui. Infatti, mentre il fantoccio del papa di Roma veniva incendiato dai musulmani aizzati da imam ed ulema, l’Occidente, il New York Times e il quotidiano italiano la Repubblica in testa, additarono al pubblico disprezzo uno dei migliori papi che abbia mai avuto la Chiesa.

Da quel momento per Benedetto XVI non vi fu più requie, divenne oggetto di ogni satira volgare, gli fu attribuita ogni nefandezza, gli fu mossa ogni accusa che ne potesse screditare la figura e il magistero. Divenne, così, l’intollerante, il papa “tetesco”, un nazista di ritorno e pure un pederasta… fu, probabilmente, in quei frangenti che s’incrinò la sua volontà di continuare a essere il pastore di un gregge che non sentiva più suo.

Dove avrebbe portato quell’incrinatura non fui in grado di capirlo quel 28 aprile del 2009 quando, Benedetto XVI, visitando a Collemaggio la tomba del suo predecessore dimissionario, Celestino V, depose il pallio papale sulla sua teca di cristallo, come a voler deporre una parte delle sue angosce, pensando già da quel momento d’imitare il papa del gran rifiuto. Quando ciò avvenne, in verità, non condivisi la sua scelta di dimettersi da capo della Chiesa perché – come dichiarò l’ex segretario di Giovanni Paolo II, monsignor Stanislaw Dziwisz – dalla croce non si scende. Però, ne compresi le recondite ragioni, la solitudine e il travaglio spirituale che avevano di certo preceduto la sua scelta.

Addio amico papa, oggi ti salutano con rimpianto coloro che, come me, speravano in una palingenesi morale della Chiesa sotto la tua guida e che, invece, si trovano a far da spettatori inani della sua fine, sotto il pontificato di un tizio vestito di bianco che, a coloro i quali domandano certezze e lineamenti di condotta, risponde «E chi sono io per poter giudicare?». Tu di certo non avresti dato di queste risposte, sapevi bene che cosa volevi essere per il mondo e per la Chiesa, ricordavi bene il mottetto che ti cantarono nella Cappella Sistina il 13 febbraio del 2013 alle fine dell’ultima apparizione liturgica pubblica: Tu es Petrus…

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