Anna Manzini, la “figlia di nessuno” della Repubblica Partenopea
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Il giorno che il medico Francesco Bagno le propose di sposarlo, Anna Manzini stette male come quando, dopo avere fatto una scorpacciata di confetti della Candelora, le sembrò che il dolce e la paura di morire si fondessero nella medesima sensazione: una povera trovatella moglie di un medico? E d’altronde i sogni delle figlie di nessuno, come a Napoli si chiamavano le trovatelle, erano privi di prospettive maritali, perché la maggior parte di esse, non avendo una dote, passava fatalmente dalla ruota dell’orfanotrofio alle cancellate di un convento
– Enzo Ciaraffa –
Le piante di canapa avevano raggiunto un’altezza tale da nascondere, agli occhi di coloro che transitavano sulla “carratura”, buona parte dei vitigni di uva asprina tesi tra i pioppi. Né canti di donne, né l’abituale rumore delle vanghe, scrostate a colpi di sasso, aleggiavano per la campagna in quella pacifica domenica di luglio. Sembrava impossibile che vicino a quel luogo così quieto, a Ponte Rotto, appena un anno prima, il 19 gennaio del 1799, si fosse combattuta una sanguinosa battaglia tra francesi e napoletani.
Due donne in nero, Teresa Bagno e Anna Manzini, avanzavano lentamente sul sentiero che dal villaggio di Cesa portava ad Aversa, camminando sottobraccio come se volessero sostenersi a vicenda e insieme sostenere un pesante fardello.
Teresa Bagno, come d’altronde il resto della sua famiglia, non aveva visto di buon occhio il matrimonio del fratello Francesco, medico, con una trovatella dell’Annunziata, e il rimorso per i passati pensieri le faceva stringere più forte il braccio della cognata con la quale si era rappacificata.
Il giorno che Francesco Bagno le propose di sposarlo, Anna Manzini stette male come quando, dopo avere fatto una scorpacciata di confetti della Candelora, le sembrò che il dolce e la paura di morire si fondessero nella medesima sensazione… una povera trovatella moglie di un medico? I sogni delle figlie di nessuno – come a Napoli si chiamavano le trovatelle – erano privi di prospettive maritali, perché la maggior parte di esse passava dalla ruota dell’orfanotrofio alle cancellate di un convento.
Nella Napoli della seconda metà del Settecento non esistevano ospedali così come oggi li conosciamo e quei pochi che operavano erano, allo stesso tempo, chiese, orfanotrofi e luoghi di cura, dove molte persone, in vario modo, cercavano di alleviare le sofferenze dei disgraziati che vi trovavano ricovero. Medici all’epoca illustri per fama e per bravura, come Domenico Cotugno e Domenico Cirillo, prestarono la loro opera nei monasteri-ospedali degl’Incurabili, di Sant’Orsola e dell’Annunziata, dove Anna era stata abbandonata da bambina. Ciò che più sconvolgeva l’animo della giovane era il fatto di sentirsi – dopo anni vissuti senza affetto – centro dell’esistenza di un’altra persona. Quando ammise con se stessa di essere attratta da Francesco provò uno sconosciuto piacere all’idea di appartenergli. Si sposarono nel 1771 e andarono ad abitare in una modesta casa di Vico dei Giganti.
La cacciata dei Gesuiti avvenuta pochi anni prima, la seppure modesta presa di coscienza della borghesia, avevano contribuito a cambiare la vita di Napoli facendone, se possibile, una città ancora più socialmente sperequata, ma anche ricca di interessi culturali. Al teatro San Carlo, al Fiorentini e al Teatro Nuovo folleggiavano la De Amicis, la Gabrielli e la famigerata rovina famiglie Viscioletta, mentre Niccolò Jommelli componeva l’Ifigenia che, alla prima concertazione, si rivelò un memorabile fiasco. Ma i due giovani sposi non parteciparono a questa neo-rinascenza sotto il Vesuvio perché Francesco, quando i malati dell’Arcispedale degl’Incurabili gliene lasciavano il tempo, si immergeva negli studi di medicina, mentre Anna ricamava il corredino per un bimbo che non sarebbe mai arrivato. Finalmente, dopo anni di gavetta e la pubblicazione di alcuni pregevoli lavori scientifici, nel 1787 Francesco Bagno fu chiamato a insegnare fisiologia e anatomia presso l’Università di Napoli.
L’eco della Rivoluzione Francese riempì Anna di non pochi timori perché il marito, solitamente mite ed equilibrato, reprimeva a stento il compiacimento per le truculente notizie che arrivavano dalla Francia. Sentiva parlare di teste mozzate con una macchina chiamata ghigliottina e poi infilzate su picche, e non riusciva a capacitarsi di come il suo Francesco, così teso ad alleviare le sofferenze degli altri, potesse poi provare compiacimento per tutto quello. Quando incominciò a meglio compenetrare l’essenza del concetto di uguaglianza propugnato dalla Rivoluzione, capì cosa era accaduto al marito: il figlio dell’umile salassatore del villaggio di Cesa, approdato a una professione decorosa, dopo rinunzie e ingiustizie, in una società dove più che la capacità contava il censo, era fatale che si ritrovasse schierato con coloro che volevano abbattere i privilegi di casta. Cercò, pertanto, di condividerne il pensiero ma, in realtà, finì con lo sposare quelle idee soltanto perché erano dell’uomo che amava.
L’anno dell’eruzione del 1794 vide materializzarsi i suoi timori.
A latere del processo che mandò condannati a morte per avere tramato contro il trono Vincenzo Vitaliano, Emanuele De Deo e Vincenzo Galiani, Francesco Bagno finì sulla lista dei sospetti fiancheggiatori della congiura. Immaginando la piega che avrebbero preso gli eventi, Anna cercò di indurre il marito a una maggiore prudenza ma senza risultato. Gli anni che l’uomo aveva trascorso a curare le malattie della gente, lo avevano radicato nel convincimento che il vero male del popolo napoletano consisteva nella mancanza di una cosa che dovrebbe stare nel cervello e nel cuore di ogni uomo: la speranza in un futuro migliore. Riteneva, infatti, che la proverbiale gaiezza dei napoletani altro non fosse che l’esorcizzazione della paura di vivere.
Quando Francesco fu licenziato dagl’Incurabili, Anna capì che si stavano approssimando guai anche peggiori e, infatti, l’Università gli tolse la cattedra.
A gennaio del 1799 arrivarono i “liberatori” francesi, ma Anna non si sentì partecipe dell’euforia della borghesia perché non riusciva a convincersi che, in un solo giorno, si potesse cancellare la monarchia borbonica. Le feste della neonata repubblica, la Sala Patriottica (il Parlamento) e gli alberi della libertà piantati ovunque, non la esaltavano più di tanto, non era per niente convinta che i francesi si battessero unicamente per regalare la libertà a chi non sapeva conquistarsela, come invece s’illudeva donna Eleonora Pimentel Fonseca sul primo numero del Monitore Napoletano: «Siamo liberi infine ed è giunto anche per noi il giorno in cui possiamo pronunziare i sacri nomi di libertà e di eguaglianza, ed annunciarci alla Repubblica madre come suoi degni figliuoli, ai popoli d’Italia e d’Europa come loro degni confratelli»
Mentre maturavano questi e altri eventi, Anna e Francesco rimasero ad abitare nella modesta casa di Vico dei Giganti, anche quando il governo della neonata Repubblica Partenopea conferì al marito l’incarico di Commissario del Cantone di Colle Giannone e, successivamente, quello di direttore dell’Università.
«È morto De Deo, quell’anima cara, martire della verità, sotto il ferro della tirannia, e non posso io seguirne l’esempio?». La facevano sorridere amaramente le trombonate di Vincenzo Russo, che era ritenuto l’oratore più ispirato della Repubblica, il quale, però, quando si era trattato di affrontare la Giunta di Stato (Tribunale), aveva preferito fare il pentito e poi scappare in Svizzera.
Al diffondersi della notizia del sacco di Altamura perpetrato dalle bande del Cardinale Ruffo che si era riproposto di riportare i Borbone a Napoli, Anna rifiutò di trasferirsi a Cesa, perché non voleva fare come quelle signore patriote della prima ora che, alle brutte notizie provenienti dalla Puglia, incominciavano a dismettere fasce e coccarde e a trasferirsi prudentemente fuori Napoli. Restò al suo posto perché quella era la battaglia dell’uomo che amava e l’avrebbe combattuta assieme a lui.
Le idee politiche di Anna Manzini, come per la maggior parte delle popolane, erano tese al concreto, perciò non poteva fare a meno di pensare che gli spiriti nobili, come il suo Francesco, stavano commettendo un errore: considerare i lazzari napoletani acchetati perché conquistati dai loro stessi ideali, mentre in realtà aspettavano il momento buono per iniziare la caccia alla vufera.
La maggior parte delle persone compromesse con la Repubblica aveva le giuste relazioni alle quali ricorrere nel caso di una sconfitta. Suo marito, invece, a chi sarebbe ricorso? Quando l’armata del Cardinale Ruffo assaltò Napoli, Francesco si portò sulla linea del fuoco, al ponte della Maddalena. Dopo la sconfitta dei repubblicani dovette andarsene a Cesa perché la loro casa era stata depredata e distrutta da quel popolo di diseredati tanto amati dal marito e che, mentre saccheggiava e bruciava le case degli antiborbonici, intonava una filastrocca derisoria dell’impiccata di agosto, donna Eleonora: «A signora ‘onna Lionora/che cantava ‘ncopp’ ‘o triato/mo abballa mmiez’ ‘o Mercato/Viva ‘o papa santo/ch’ha mannato ‘e cannuncine/pe’ caccià li giacubine/Viva ‘a forca ‘e Mastu Donato/Sant’Antonio sia priato». Mastro Donato era il boia di Napoli e Sant’Antonio il patrono dei realisti in contrapposizione a San Gennaro che, invece, parteggiava per i repubblicani.
Come Anna aveva sempre temuto, la Restaurazione lavò col sangue la macchia del “tradimento” e il suo nume feroce fu la regina Maria Carolina. Durante quei convulsi frangenti si consumarono le viltà e i tradimenti di tutte le Restaurazioni e, d’altronde, lo stesso Cirillo tentennò di fronte alla possibilità di chiedere la grazia della vita.
Ma se per l’illustre medico si adoperarono perfino l’ammiraglio Nelson e lady Hamilton, nessuno mosse un dito per Francesco Bagno, figlio di un oscuro cavatore di sangue del villaggio di Cesa che venne impiccato il 28 novembre del 1799.
Ma se molti anni dopo a Francesco Bagno furono intitolati strade, scuole e ospedali, nessuno ricordò Anna Manzini, una napoletana scettica e disincantata ma anche forte, che lottò per una causa nella quale non credeva, soltanto perché si trattava della causa dell’uomo che era tutto il suo mondo.
(La copertina è di Donato Tesauro ed è stata tratta dal libro “Le 7 figlie del sole” di Enzo Ciaraffa)
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