Pensavamo, quella santa notte di tanti anni fa, di aver fatto il dono della carità ad un uomo solo e anziano, e invece era stato lui a farne a noi uno molto più grande: il dono di farci sentire fratelli, figli e nipoti di un Padre infinito
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All’alba di una vigilia di Natale che credo fosse quella del 1980, quando mi alzai dal letto ero di umore non proprio brillante e la prospettiva di dover trascorrere le successive ventiquattro ore in caserma mi portò a guardare con una punta d’invidia mia moglie che dormiva ancora avviluppata nella trapunta. In verità il servizio di Maresciallo o Ufficiale di Picchetto era già piuttosto impegnativo in un giorno normale, ma la vigilia di Natale era proprio difficile mandarlo giù, ma fare il militare era il lavoro che mi ero scelto… Per agevolare la comprensione di quei lettori che non hanno fatto la leva, bisogna dire che una volta tale servizio si occupava – per ventiquattr’ore – della sicurezza della caserma, un compito che assicurava mediante un’aliquota fissa di guardie armate. Era un compito così importante che, per essere pronti a fronteggiare qualsiasi evenienza che riguardasse la sicurezza della struttura, sia lui che gli uomini della guardia, quando potevano, riposavano vestiti nei rispettivi alloggiamenti del corpo di guardia, che nel caso era situato subito dopo l’entrata principale della caserma “Berardi” di Avellino.
Ma ritorniamo al mio servizio, in quella fredda giornata de la vigilia di Natale di tanti anni fa. Quando arrivai al corpo di guardia trovai il collega cui dovevo dare il cambio, infreddolito, assonnato e scherzosamente minaccioso: «…Se tardavi soltanto un minuto ti strozzavo!». Terminate le incombenze di rito riguardanti il cambio, come dire il passaggio delle munizioni, della busta sigillata contenente la parola d’ordine per la notte, i soldi, una licenza e uno scontrino ferroviario in bianco per un eventuale militare da inviare in Gmf durante la notte (Gmf era l’acronimo di gravi motivi familiari), lanciai dietro al collega gli auguri mentre andava via. Ma neanche mi sentì tant’era la fretta di scappare a casa per fare, immaginai, una doccia bollente e una bella mangiata con la famiglia.
Il pomeriggio del Maresciallo di Picchetto era normalmente senza storia fino al cambio della guardia, perché ciò comportava l’avvicendamento degli operatori di un servizio senza che questo s’interrompesse e, trattandosi di operatori armati, chi era preposto a sovraintendervi poneva molta attenzione. La temperatura nel frattempo era ulteriormente calata (che io ricordi Avellino era una delle città più fredde d’Italia) e la sera si preannunciava particolarmente gelida. Per fortuna, oltre a degli insufficienti termosifoni, qualcuno del comando caserma aveva fatto installare nel corpo di guardia una stufa a carbone minerale che irradiava un po’ di calore fin dentro la mia spartana stanzetta. Dopo il “cenone” de la vigilia di Natale in caserma, consumato a turni presso la mensa truppa, furono pochi – tra quei pochi che non erano andati in licenza natalizia – i soldati che quella sera si recarono in libera uscita, ma anche quei pochi andavano controllati, perciò mi misi a passeggiare su e giù per l’androne sbattendo i piedi per terra ogni tanto, con la segreta speranza di migliorare la deficitaria circolazione delle mie estremità gelate dentro gli anfibi.
Mentre ero dedito a quell’andirivieni intravidi, all’incerta luce di un lampione affiorante dalle fronde dei platani di viale Italia (detto anche viale dei Platani), la sagoma di una persona che, intabarrata fino alle orecchie, mi stava osservando da chissà quanto tempo attraverso l’inferriata del cancello. Abbastanza infastidito e cercando tardivamente di darmi un contegno più marziale, mi avvicinai per vedere chi se ne stava a osservarmi in una serata così fredda che certamente non induceva alla contemplazione all’aperto. Mi trovai di fronte un cappottone dal quale emergevano una chioma bianca e due occhi che, nonostante la poca luce, apparivano azzurri. Era una persona anziana che, lo si capiva a pelle, era combattuta tra l’andare via e il rimanere a parlare con me.
Per la verità all’inatteso visitatore non concessi molto tempo per decidere il da farsi perché passai subito all’attacco: «Nonno, che cosa fate con questo freddo qui fuori? Cercate qualcuno?». Non mi rispose e nei suoi occhi mi parve di intravedere un luccicore, mentre il viale alle sue spalle si era fatto per un attimo silenzioso e solingo. «Chissà quali problemi affliggono questo poveretto e io sto qui a fare della metafisica» pensai tra me mentre lo invitavo a entrare. «Venite dentro» gli dissi mentre lo prendevo per un braccio e lo accompagnavo al caldo dentro il corpo di guardia. «Al diavolo anche le norme di sicurezza!» dissi a me stesso mentre chiedevo al Sergente di sostituirmi. Una volta dentro il corpo di guardia, senza parlare incrociai lo sguardo interrogante dei militari liberi che sedevano intorno alla stufa, i quali, passato lo sconcerto, fecero subito posto al nuovo venuto in mezzo a loro senza problemi.
L’arrivo dell’anziano spazzò via l’atmosfera un po’ triste di quella sera, mentre fuori dalla caserma si udivano i primi botti, i famigerati tric-trac che ci avrebbero deliziato fino alla messa di mezzanotte. Il vero Natale per noi del Sud è la Vigilia, una sera che un tempo ci prendeva nel profondo tutti: grandi, giovani e bambini. Nel particolare caso il guaio era che, non essendo stato ancora inventato il telefono cellulare con cui chiamare le persone care o inviar loro un dolce messaggio, in occasioni come quella sera si rimaneva soli a rimuginare i propri pensieri. Per fortuna con l’arrivo dell’anziano la contenuta tristezza aveva lasciato il posto a un’insolita eccitazione, forse perché i ragazzi avevano capito il dramma umano di quello che, senza saperlo, interpretava la presenza dei loro nonni a Natale. In pochi minuti, infatti, tra il nuovo arrivato e loro si stabilì un dialogo fatto, inizialmente, soltanto di domande “sparate” a raffica, come si diceva in gergo najone, ma fu quando arrivarono le risposte che si riuscì a delineare la sua storia: una giovinezza sfiorita sui campi di battaglia della Grande Guerra nei ranghi della Brigata Avellino, un dopoguerra difficilissimo, una vita a spaccarsi la schiena in campagna e sopravvivere alla prematura morte dell’unico figlio.
Aveva trovato la forza di tirare avanti assieme alla propria vecchia ma – ci rivelò abbassando la testa – essa se ne era andata a raggiungere il figlio un mese prima. Da quel momento per lui fu il vuoto esistenziale: erano seguite serate solitarie passate a guardare la televisione e, a volte, ad accarezzare foto sbiadite. Ma quella sera, la vigilia di Natale, proprio non ce l’aveva fatta a rimanere in quella casa alla periferia di Avellino piena, ormai, soltanto di ricordi. Con chi scambiare qualche parola, in compagnia di chi aspettare l’arrivo del Divino Bambino? Non aveva fratelli, sorelle o nipoti e, come questo in cui viviamo oggi, il mondo di allora sembrava fatto soltanto per i vincenti e, forse, fu proprio per quella ragione che il vecchio era venuto a cercare un po’ di compagnia sul cancello della nostra caserma. Il che, in verità, non mi parve strano più di tanto. Avevo letto da qualche parte infatti che, nei momenti tristi della loro vita, le persone anziane sono solite intraprendere un “viaggio” a ritroso nel tempo, che puntualmente li riportava da dove erano partiti, e cioè a quando erano giovani e sognatori. La venuta dell’anziano aveva, infatti, una sua ragione d’essere: la caserma Berardi ospitava anche il 231° Reggimento di fanteria “Avellino”, dell’omonima Brigata nella quale egli aveva militato durante la Grande Guerra.
Nel nostro Esercito è sempre esistito un tam-tam silenzioso ma molto efficace chiamato «Radio naja», grazie alla quale le notizie si propagano – e si propalano anche… – con sorprendente celerità. Soltanto così riuscii a spiegarmi la comparsa improvvisa nel corpo di guardia di un insolito quantitativo di tavolette di cioccolata militare, fette di panettone e bustine di “Cordiale” (una sorta di cognac al buon prodotto dall’Istituto Chimico Farmaceutico Militare di Firenze), sicuramente provenienti dal magazzino viveri della caserma… pure il magazziniere aveva saputo della presenza dell’anziano al corpo di guardia.
Il tempo quella sera della Vigilia che non scorderò mai scorse velocemente, le guardie si diedero più volte il cambio mentre mi chiedevo che regalo fare, a quell’ora, al nostro amico. Guardando il suo cappotto appeso all’attaccapanni, mi venne un’idea che al momento mi sembrò geniale: misi mano al portafogli. Preso, infatti, tutto il denaro che avevo in tasca, non visto lo infilai in una tasca del suo cappotto e figurarsi il mio stupore nel trovarle piene di cioccolato e di altri soldi: benedetti ragazzi, avevano avuto la mia stessa idea! Molto tempo dopo che era suonato il silenzio – quando suona il silenzio tutti i non militari dovrebbero uscire dalla caserma per regolamento… – Zì Cosimo, come ci aveva detto di chiamarsi, si preparò per ritornarsene a casa visibilmente rinfrancato. Lo scortammo oltre la porta centrale dove, dopo altri auguri di buon Natale, ci scambiammo la promessa d’incontrarci ancora. Lo vedemmo allontanarsi curvo e con le mani affondate nelle tasche del cappotto mentre, in lontananza, qualche tric-trac si faceva ancora sentire. Senza parlare, seguimmo con lo sguardo la sua andatura strascicante, fin dove lo consentivano i tremuli lampioni del viale Italia. Non lo avremmo più rivisto per gli anni della nostra permanenza ad Avellino.
Il resto di quella notte la trascorsi – tolti quelli che avevo messo io – a ridistribuire tra i soldati della guardia, se non ricordo male, lire 287.500: quella era la somma che avevo trovato delicatamente appoggiata sulla brandina della mia stanza che, per non sembrare ingrato, aveva discretamente lasciato il nostro insolito ospite. Non mi è dato sapere che fine abbiano fatto i militari di quella Vigilia, ma forse anche a loro, a distanza di tanti anni, qualche volta sarà venuto il sospetto che il vecchio, con il quale parlarono e scherzarono d’avanti alla stufa del corpo di guardia, avesse, in realtà, un nome diverso da quello dichiarato… anche se nessuno lo pronunciò mai ad alta voce. Chissà, pensavamo, quella santa notte di tanti anni fa, di aver fatto il dono della carità a un uomo solo e anziano, e invece era stato lui a farne a noi uno molto più grande: il dono di farci sentire fratelli, figli e nipoti di un Padre infinito.
(Immagine di copertina selezionata da Donato Tesauro)
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