Ripieghiamo mestamente le bandiere

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Come avvenne nel primo dopoguerra, riusciremmo pure ad affrontare con disciplina patriottica e tanta passione ricostruttiva il dopo – virus e, invece, man mano che diminuisce il numero dei morti, man mano che il pericolo diviene meno incombente, iniziano ad affiorare le piccinerie e le divisioni politiche dei tutti contro tutti. Pare addirittura che qualcuno molto in alto, per capitalizzare la notorietà dovuta al fatto di essere sui media ogni giorno in virtù del suo ruolo, stia addirittura apparecchiandosi un partito politico. Il che la dice lunga sulla morale della nostra classe politica
–  Enzo Ciaraffa –

Come nel corso di ogni tragedia collettiva, in questi giorni credo di aver visto il meglio e il peggio del nostro Paese che, diciamolo con sincerità, non è ancora una Patria con la maiuscola e ne comprendo anche le ragioni: il fascismo, arruolando nelle proprie fila il sentimento di patria, di bandiera e di nazione, lo aveva reso “obbligatorio” quasi come il servizio militare, svuotandolo così di ogni spontaneità e, anzi, rendendolo inviso al popolo.

Con la caduta del fascismo però le cose non migliorarono, perché la Resistenza che ne seguì, i cui membri in buona parte anteponevano la bandiera rossa al Tricolore, a guerra finita consegnò l’Italia alla stessa classe dirigente che aveva condiviso col passato regime le leggi razziali e quattro guerre in vent’anni. Infatti, salvo poche figure di secondo piano, i complici attivi e passivi del fascismo conservarono il posto nella macchina istituzionale e burocratica del Paese e, ironia della storia non scritta, riebbero il potere dalle mani di quei Comitati di Liberazione Nazionale che avrebbero avuto tante buone ragioni per mettere al muro molti di loro. Si pensi che ancora nel 1960 molti funzionari statali anziani risultavano di nomina fascista come, ad esempio, i 62 Prefetti sui 64 che quell’anno erano in servizio: figurarsi quanta voglia e quanto interesse avevano costoro, con un passato così “scomodo” da cancellare, di mettersi in mostra per rinverdire e coltivare i sentimenti patriottici degli italiani.

Le cose andarono avanti così fintanto che al Quirinale non entrò Sandro Pertini e a Palazzo Chigi Bettino Craxi. Si trattava, nonostante i loro limiti caratteriali e politici, di due uomini intelligenti i quali, a differenza dei comunisti, avevano capito che il sentimento nazionale e i valori ad esso riconducibili non erano antitetici al socialismo di stampo europeo, anzi lo modernizzavano. Craxi, poi, era un profondo conoscitore del Risorgimento e uno sfegatato ammiratore di Garibaldi, oltre che collezionista dei cimeli riferiti alla sua epopea. Il positivo approccio con i sentimenti patriottici e nazionali si accrebbe ancora di più con l’entrata al Quirinale prima di Cossiga e poi di Ciampi: il primo Capitano di corvetta di complemento della Marina Militare, il secondo Sottotenente di complemento in guerra del servizio automobilistico.

Ebbene, questi personaggi politici, alcuni dei quali a loro tempo furono contestati, criticati, inquisiti e sottoposti alla damnatio memoriae come Bettino Craxi, furono uomini dal carattere forte e volitivo, che credettero sempre nella gestione democratica della democrazia e mai indugiarono in atteggiamenti duceschi, come purtroppo sta avvenendo in questi giorni nel nostro Paese da parte del capo del governo mentre Mattarella se ne sta rintanato al Quirinale. Anche se, bisogna ricordarlo, il PCI, il giornale La Repubblica e lo scrittore Giorgio Bocca, che all’epoca erano sulla stessa linea di pensiero, lanciarono contro Cossiga ogni genere di infamante accusa, compresa quella di essere un pericoloso mattocchio e un golpista in pectore. Ma come che andò, resta il fatto che anche grazie a tali personaggi i termini Tricolore, Patria e Nazione, furono sdoganati, ed era già qualcosa.

Ciononostante bisogna rilevare che ancora una volta il patriottismo non fu ispirato dal basso, né coltivato dall’alto, ma come il mangime ai polli fu buttato alla rinfusa in mezzo agli italiani che, specialmente quelli della generazione del dopoguerra, quasi non si ricordavano più di essere figli di una stessa terra, di avere in comune la stessa storia, di parlare la stessa lingua, di aver svolto il servizio di leva nelle stesse caserme al servizio dello stesso Paese. Infatti la maggior parte degli italiani non beccò qual mangime, preferendo lasciarsi conquistare dai meno impegnativi miti della globalizzazione, sostituendo il Tricolore con gli arcobaleni, la Patria col web e la Nazione col branco.

Poi è venuto a sconvolgere le nostre vite, a sovvertire i nostri riferimenti ideali un nemico che non avevamo messo in conto, un virus, e mentre la classe dirigente cincischiava perché resasi conto con ritardo della pericolosità del nemico che bussava alle porte, noi siamo ricorsi alla nostra estrema risorsa emotiva per non soccombere, per far sentire a chi lottava in prima linea che dietro di loro c’era un Paese compatto come una falange macedone. Allora abbiamo tirato fuori i Tricolori che avevamo in serbo per le partite della nazionale di calcio e ci siamo messi a cantare l’Inno di Mameli da ogni finestra e balcone d’Italia … sembravamo, e lo scrivo con sincera commozione, tanti Gea della Garisenda, la cantante che, avvolta nel Tricolore, nel 1911 aveva mandato in visibilio il pubblico con le sue canzoni patriottiche a favore della guerra di Libia. Qualcuno, invece di plaudire, ha trovato da ridire su questo modo piuttosto originale di noi italiani di tener compatte le retrovie, salvo dopo imitarci come hanno fatto francesi e inglesi.

Il Covid-19 è riuscito, dunque, dove hanno fallito tre regimi e settantadue governi dal 1922 ad oggi: farci sentire finalmente tutti uniti sotto la medesima bella bandiera. Prima o poi, però, dovremo uscire di casa per recarci in fabbrica, in ufficio, a scuola, cioè dovremo confrontarci con una “realtà del dopo” che non si prevede particolarmente brillante. Eppure, come avvenne nel primo dopoguerra, riusciremmo pure ad affrontare con disciplina patriottica e tanta passione ricostruttiva questa evenienza e, invece, man mano che diminuisce il numero dei morti, man mano che il pericolo diviene meno incombente, iniziano ad affiorare le piccinerie e le divisioni politiche dei tutti contro tutti. Pare addirittura che qualcuno molto in alto, approfittando della notorietà mediatica dovuta al fatto di essere sui media ogni giorno in virtù del suo ruolo, stia addirittura apparecchiandosi un partito politico costruito su misura per il dopo – virus… la politica italiana è, ormai, come il maiale del quale non si butta niente. Sicché in questi giorni sta venendo fuori, con ogni possibile evidenza, la vera ragione di quella scarsa attenzione che fino ad oggi abbiamo riservato a valori quali Patria, Tricolore e Nazione: l’inesistenza di una classe politica e dirigente capace di provarli, di coltivarli, di personificarli. Fosse soltanto questo!

Temo, infatti, che tra poco saremo chiamati a costatare, oltre a quella di tante persone care, la perdita di una grande occasione per procedere uniti contro le sfide mortali, perfino più mortali del Covid-19, che ci attendono non tra cento anni ma tra pochi mesi, contro nemici che, come sciacalli, si aggireranno tra le macerie del nostro sistema economico e produttivo per vedere se è rimasto ancora qualcosa da portar via, se c’è ancora qualche tassa da poterci imporre per pagare l’usura sul finanziamento della nostra indigenza economica.

E allora senza più volontà, senza più combattività, ripiegheremo mestamente le bandiere che avevamo esposte con tanto orgoglio dai balconi e, delusi e rassegnati, torneremo nel branco della globalizzazione dal quale ci illudevamo di poter finalmente uscire, seppellendo definitivamente qualcosa di più bello e di più grande di noi come l’Italia unita, l’Italia capace di sognare, l’Italia capace di lottare.