Oltre ad averci liberati dalla tirannia nazifascista, oltre ad averci regalato la democrazia, gli yankee ci indicarono una nuova e più bella prospettiva esistenziale, magari eccessivamente materialista ma tanto inebriante perché fu per la prima volta, e forse l’unica volta, che gli italiani sentirono di avere nelle mani il proprio destino
– Enzo Ciaraffa –
Per me ragazzino del Sud nei primi anni Cinquanta, l’America era soltanto la patria delle barrette di cioccolato, delle gallette e dei biscotti con i forellini che ci davano all’oratorio, così come lo era di quella medicina miracolosa che, acquistata alla borsa nera nel 1944, aveva salvato la vita a mio padre qualche anno prima che io nascessi: la penicillina. Insomma, la mia fanciullezza fu contrassegnata da un sentimento di affetto e di ammirazione verso un misterioso Paese che, grazie ai racconti che ne facevano in famiglia, sembrava mitologico come il paradiso, grazie all’antenato del Pnrr: il Piano Marshall. Quel piano di aiuti economici, alimentari e di materie prime, fra tante altre cose, inondò l’Italia di carne in scatola in gelatina e cioccolata, alimenti che colpirono molto l’immaginario di noi bambini fino a quel momento allevati a ciambotta e pasta e fagioli, che di sera andavamo a prendere il latte per la colazione dell’indomani mattina nella stalla del contadino più vicino il quale strizzava i capezzoli della mucca direttamente nel collo della bottiglia.
Ma questa concezione sognata dell’America era anche degli adulti, stando a quanto scrisse, il 14 novembre del 1949, il giornale della Democrazia Cristiana, Il Popolo: “L’apparente aspetto tentacolare di una città americana non uccide il cuore di chi vi abita. L’America è ormai un paese a classe unica: il ceto medio senza privilegi né di nascita, né di censo. Anche le donne hanno un miglior livello di vita potendo usufruire di ogni tipo di elettrodomestici. Regna la più perfetta armonia fra produttori e imprenditori. Il sistema americano è il migliore del mondo, dubitarne è un’eresia”. Non era tutto vero perché, come avremmo scoperto più tardi, nella terra degli yankee i rapporti tra le classi sociali e interrazziali non miravano per niente alla costruzione di un clima idilliaco, ma noi italiani, almeno quella parte che non seguiva il verbo di Mosca, volemmo crederci perché, tra il fascismo che ci eravamo appena lasciato alle spalle e il comunismo minacciosamente avanzante dappertutto, non è che avessimo molto da scegliere. E fu l’America anche in Italia, un po’ con la faccia di Nando Mericoni, il borgataro romano interpretato da Alberto Sordi e un po’ con quella dell’antesignano di Berlusconi che fu l’armatore monarchico Achille Lauro: inverosimili entrambe, eppure furono le facce dei nostri anni migliori. E se ne capisce anche il perché.
Un popolo sconfitto come quello nostro, violentato nella carne e negli ideali dalla guerra, aveva bisogno di raccogliersi intorno a dei miti-simboli per tornare a vivere come collettività e come nazione. E dopo una guerra disastrosa e un trattato di pace anche peggiore, quali potevano essere i nostri miti, se «l’Impero dei colli fatali» si era frantumato già nei primi giorni di guerra e lo Stato risorgimentale si era dissolto in poche ore nel 1943 assieme alle forze armate? Ebbene, i nuovi miti ai quali aggrapparci li trovammo per merito degli americani, degli yankee, grazie ai quali avevamo cominciato ad apprezzare i vantaggi della democrazia con un rinnovato rapporto tra popolo e Potere attraverso la Costituzione. Subito dopo – ed era fatale che ciò accadesse – scoprimmo il new american way of life, il Boogie-Woogie, i blue-jeans e il weekend. Insomma, oltre ad averci liberati dalla tirannia, oltre ad averci regalato la democrazia, gli yankee ci indicarono una nuova e più bella prospettiva esistenziale, magari eccessivamente materialista ma tanto inebriante perché fu per la prima e forse l’unica volta, che gli italiani sentirono di avere nelle mani il proprio destino.
Poi vennero l’appoggio alla dittatura di Batista a Cuba, la “simpatia” per alcuni regimi dittatoriali sudamericani in chiave anticomunista e le guerre in Indocina (quella vietnamita in particolare) ad appannare l’immagine di quei ridanciani ragazzoni eredi dei cow boy, degli yankee che, senza paura e masticando chewing gum, affrontarono i coriacei tedeschi al posto nostro, liberando il Paese da vent’anni di dittatura al costo di circa 90.000 di loro che non ritornarono più a casa.
Sì, è vero, l’immagine dell’America libertaria, specialmente durante la congerie sessantottina si appannò, eppure non smettemmo mai di amarla perché – era la prima regola del nuovo gioco democratico che essa ci aveva insegnato – potevamo amarla e criticarla allo stesso tempo, come avviene nei regimi di libertà. E poi l’America all’epoca suscitava una generalizzata ammirazione anche nel resto del mondo grazie all guida di presidenti pragmatici e relativamente giovani come Harry Truman e Dwight Eisenhower, o molto giovani come John F. Kennedy, sicché le critiche le scivolarono addosso, né mandò i carri armati per reprimere il nostro dissenso, né ci impose mai un mercato unico. Insomma, eravamo liberi perfino di sputarle addosso mentre ci sfamava e ci proteggeva dal comunismo col suo ombrello atomico.
Purtroppo per noi occidentali, da George W. Bush in poi, l’America, ritenendo per sempre sconfitto il comunismo con la caduta del muro di Berlino nel 1989, ha commesso l’errore di ritenere chiusa la partita con lo storico nemico e, di conseguenza, ha trascurato l’Alleanza Atlantica che vi si contrapponeva e ignorato alcune mosse prodromiche dei suoi eredi di Mosca e Pechino, sottovalutando anche l’agglomerazione intorno a loro di Iran, Corea del Nord e India, che proprio campioni di democrazia non sono, anche se, nonostante le napoleoniche mire di Putin sull’Ucraina, è la Cina il grande nemico dell’umanità. E ciò per una ragione semplice: Putin è un incidente della storia, la Cina comunista è, invece, una costruzione antistorica fin dalla sua nascita avvenuta nel 1949. È stato, infatti, da quel momento che essa ha iniziato a mirare al dominio del mondo, reinterpretando il significato degli eventi come, per citare il più recente, la guerra russo-ucraina, la cosiddetta svolta green (lei, la più grande inquinatrice del globo!!) e l’accaparramento di risorse alimentari e di materie prime, dal quale accaparramento è partita la corsa al rincaro di gas, elettricità e generi alimentari, che sta sbrindellando i nostri bilanci.
La Cina ha un miliardo e mezzo di abitanti e poca terra coltivabile, sicché ha una grande necessità di cibo e di suolo, perciò sta ricorrendo sempre più massicciamente al land grabbing, o più semplicemente affitto di suolo per le sue colture in Africa, determinando il paradosso di Paesi poveri che producono risorse alimentari per la seconda economia del mondo. Ma la repubblica del dragone non ha di questi scrupoli e, imperterrita, sta portando avanti la sua politica espansiva mediante l’infiltrazione economica e un Pil a due cifre, il che le consente di aspettare senza patemi l’ulteriore indebolimento, o il prossimo passo falso (come quello dell’inglorioso ritiro dall’Afghanistan) del gigante americano prima di dare inizio alla guerra, perché è questo che vuole la Cina per mettere il suggello a un nuovo ordine mondiale a partire dal Pacifico. D’altronde attendere l’ulteriore indebolimento del colosso americano è di per sé una strategia militare al cospetto di una leadership a stelle e strisce incerta, debole e vacillante, che sta frantumando l’intero fronte occidentale. E ogni occasione è buona per il Dragone per creare problemi all’Occidente.
Infatti, approfittando di questo momento di debolezza dell’America, sta tentando di adottare la criptovaluta Yuan Pay come moneta ufficiale, con l’obiettivo di ridefinire l’economia globale e di distruggere la maggior parte delle divise attualmente in circolazione compresi l’euro e i bitcoin. Ci riuscirà? Non ci riuscirà? La riuscita o meno è, in ogni caso, ininfluente perché la sua strategia generale è molto articolata e non cambierà, né sul breve né sul lungo periodo, perché l’obiettivo della Cina è chiaro per chi lo vuol vedere: vuole sottomettere il mondo e non necessariamente manu militari. E di questo mondo faccio parte anche io e proprio non ci sto a diventare suddito dei mandarini comunisti.
Pertanto, mi auguro che gli yankee cambino strategia e stemperino la loro tendenza isolazionista se vogliono riconquistare il ruolo di leader a livello globale, un ruolo sceso ai minimi storici con la tumultuosa presidenza Trump e con quella meno tumultuosa ma altrettanto inefficace dell’anziano e un po’ rimbambito Biden. Ma c’è alle viste un altro Kennedy o Reagan? Purtroppo no, anche perché i posizionamenti per le primarie di democratici e repubblicani sono appena iniziati.
A questo punto, a noi amici e memori della lotta sostenuta dagli yankee per regalarci e conservarci la libertà, non resta che augurarci l’emersione di un giovane outsider dalle primarie, il quale, proprio perché tale, avrà tutta la verve per diventare un cazzuto presidente degli Stati Uniti. Noi puntiamo sull’astro nascente dei repubblicani, il governatore (conservatore) della Florida Ronald Dion DeSantis, detto Ron, il quale – a parte il partito – ha molti punti in comuni col presidente della nuova frontiera, John F. Kennedy. Oddio, non ci dispiace neppure il democratico Wes Moore (in Italia lo definiremmo “progressista”) governatore afroamericano del Maryland e veterano di guerra, una caratteristica quest’ultima che in America conta molto durante le campagne elettorali.
È un caso che anche lui come DeSantis abbia 44 anni, la medesima età di Kennedy quando fu eletto alla Casa Bianca? Ai casi non credo, al fatalismo degli eventi sì: questo e non altri è il momento in cui l’America deve diventare saggia e forte. Gli yankee devono rialzarsi! Ne va della sopravvivenza della democrazia nel mondo e delle libertà che essi ci regalarono 78 anni fa.
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