Anche se non siamo certi di aver del tutto capito l’intrinseco significato di certi termini stranieri di uso corrente, abbiamo iniziato a familiarizzare con lo spread, con il default, il bond e con il recovery fund. Una cosa, però, l’abbiamo capita subito e bene: ogni volta che nei palazzi del potere risuonavano tali termini o saltava un servizio al cittadino, o aumentava una tassa, o sparivano ospedali e posti letti, o cresceva il debito pubblico, o diminuiva il potere di acquisto di stipendi e salari
– Enzo Ciaraffa –
Nel film “Un americano a Roma” del 1954 Alberto Sordi interpretò la parte di Nando Moriconi, un giovane talmente infatuato dello stile di vita americano che imitava (in modo piuttosto convinto in verità…) per i ragazzini del suo quartiere le gesta degli eroi della cinematografia americana dell’epoca in un ridicolo idioma italo-inglese-romanesco. In particolar modo si produceva per i ragazzini del sorgente quartiere nelle vesti di Tarzan–Johann Weissmüller in una pozza d’acqua, o marrana come ancora si dice nella dissestata Roma di Virginia Raggi. Anzi, quel tontolone di Nando-Sordi era straconvinto che negli States avrebbe potuto avere addirittura un destino migliore dell’italo-americano più noto dell’epoca, ossia il campione del baseball, Joe Di Maggio, se non avesse preso la varicella: «A me m’ha bloccato la malattia». Purtroppo quel film diede inizio alla nostra pessima abitudine di imitare la terminologia e le mode provenienti d’oltre Atlantico che hanno raggiunto in questi anni le supreme vette del ridicolo.
Purtroppo, all’abitudine di utilizzare termini presi in prestito dagli idiomi altrui, si è aggiunta la nostra fertile fantasia mediterranea nell’inventarcene di nuovi. Al riguardo, prima di andare avanti, voglio riferire di un episodio accadutomi una trentina di anni fa quando, per la prima volta in vita mia, lessi sull’insegna di un negozio “Centro di contattologia” … che accidenti vendevano? Incuriosito mi avvicinai alle vetrine per scrutare dentro e cercare di capirci qualcosa, immaginando chissà quali accrocchi tecnologici vi si vendessero. Era, in realtà, il negozio di un ottico che vendeva anche lenti a contatto! Devo confessare che in quella circostanza feci una previsione poi clamorosamente smentita dai fatti successivi: «Come tante altre, prima o poi, passerà anche questa moda dei termini esterofili e altosonanti».
Macché, ci aspettava l’inferno dei vari petaloso per parlare di un fiore provvisto di petali, o di eskere per salutare, o di bufu al posto di coglione, o di blastare per deridere o zittire. Ma non era ancora niente rispetto a quello che stava per succedere nel campo della politica e dell’economia, le quali, per stupirci e non farci capire niente delle loro magagne, iniziarono a mutuare parole e verbi dall’inglese per esprimere parole che si potevano benissimo rendere nel nostro italiano.
E così, anche se non siamo certi di aver del tutto capito l’intrinseco significato di quei termini, abbiamo iniziato a familiarizzare con lo spread, con il default, il bond e con il recovery fund. Una cosa, però, la capimmo subito: ogni volta che nei palazzi alti del potere politico-economico e sui media risuonavano tali termini o saltava un servizio al cittadino, o aumentava una tassa, o sparivano ospedali e posti letti, o cresceva il debito pubblico, o diminuiva il potere di acquisto dei nostri stipendi. Se poi qualcuno andava timidamente a chiedere conto e lumi al governante di turno, veniva zittito, più o meno con buona grazia, con un’altra classica espressione del ricco repertorio fanculista: «Ce lo chiede l’Europa».
E allora, un po’ per non far brutta figura per la nostra poca dimestichezza con la lingua di Shakespeare, un po’ per non apparire dei rozzi antieuropeisti, quasi sempre abbozzavamo con un filosofico assenso inclinando la testa in avanti, ben contenti in fondo di appartenere al giro di quelli buoni, dei maître a penser sempre con la citazione giusta sulla punta della lingua, anche se maneggiavano l’inglese come un tempo nostra madre le polpette la domenica. Perfino gli immigrati provenienti dalle aree anglofone parlano la lingua della regina meglio della maggior parte dei nostri leader politici.
Poi sono comparsi sulla scena Di Maio e Paola Taverna col loro accento vagamente oxfordiano rispettivamente della zona vesuviana e della Garbatella e, disperato per lo sconforto di essere stato superato, Nando Moriconi si è lasciato affogare nella marrana, anzi marana, per dirla alla romana.