Il guaio dell’esercito russo è che i suoi generali, nell’ultimo mezzo secolo, si sono fatti le ossa in Afghanistan, in Cecenia ed in Siria, contro quelle che possiamo definire fanterie leggere sprovviste di armamenti complessi come radar, lanciatori, missili e contro missili. In Ucraina, però, le cose non stavano così perché, negli ultimi anni, un po’ di armamenti occidentali di ultimissima generazione avevano fatto in tempo ad arrivare, ed è stato un grande scorno per l’intelligence russa non essersene accorta
– Enzo Ciaraffa –
L’esercito russo che fino allo scorso ventiquattro febbraio aveva la fama di essere uno dei più potenti eserciti del mondo, in Ucraina se la sta vedendo brutta contro un avversario composto, per la maggior parte, da milizie civili. Se a questo aggiungiamo che, fino ad oggi, sembra che Putin abbia perso sette generali e quattro navi (tra le quali certamente l’ammiraglia della flotta nel Mar Nero, l’incrociatore lanciamissili Moskva), si capisce che il principale problema dell’esercito russo è nel centralistico impiego dei reparti. Errori di questo tipo non sono nuovi nella storia degli eserciti (e noi italiani ne sappiamo qualcosa), ma che quello russo potesse operare secondo schemi risalenti addirittura alla Prima Guerra Mondiale non se lo aspettava nessuno. Per capirci dobbiamo fare un rapido excursus all’indietro.
Durante la guerra 1915 – 1918, sulle cartoline di propaganda che dai loro aerei gli austriaci lanciavano sulle nostre linee, il soldato italiano era rappresentato con la testa di leone, l’ufficiale inferiore con la testa di cavallo e il Generale con la testa di asino. Per amore della verità storica è giusto ricordare che quella guerra zoomorfa l’aveva cominciata Garibaldi anni prima, quando aveva affibbiato ai suoi tre asini di Caprera i nomi di Napoleone III, di Francesco Giuseppe e del papa Pio IX. Comunque, non saranno stati tutti delle teste d’asino, però i generali italiani – come pure i loro pari grado delle opposte alleanze – un limite lo ebbero, e non fu un limite da poco. La maggior parte di essi, infatti, aveva compiuto il cursus honorum in Africa, in Asia o in Medio Oriente contro truppe che, per usare il metro europeo, potevano definirsi di cavalleria e di fanteria leggera. Sicché, la scarsa consistenza di armamento pesante dei loro avversari conferì agli eserciti europei grandi vantaggi sul campo perché essi, non dovendo fronteggiare delle organizzate artiglierie, mitragliatrici e aerei, poterono imprimere alle battaglie coloniali una propulsione difficilmente realizzabile contro un esercito del Vecchio Continente dei primi anni del Novecento. E il non averlo capito in tempo, fece sì che la Grande Guerra diventasse la quintessenza di una guerra di posizione, un macello globale di cui la storia non ricorda eguali.
Più o meno quel che è successo ai generali dell’esercito russo che, nell’ultimo mezzo secolo, si sono fatti le ossa, se così possiamo dire, in Afghanistan (da dove furono costretti a scappare), in Cecenia e in Siria, contro quelle che possiamo definire fanterie leggere solitamente sprovviste di armamenti complessi come radar, lanciatori, missili e contro missili. In Ucraina, però, le cose non stavano così perché, negli ultimi anni, un po’ di armamenti occidentali di ultimissima generazione avevano fatto in tempo ad arrivare, ed è stato un grande smacco per l’intelligence russa il non essersene accorta a tempo debito.
Anche se non è ancora arrivato a sostituire 217 generali, 255 colonnelli e 335 comandanti di battaglione, come aveva fatto il generalissimo Cadorna nel corso della guerra, Putin, stando a quel che filtra in Occidente, avrebbe iniziato a rimuovere un po’ di generali. Immaginiamo che queste rimozioni non siano di tipo meritocratico, perché i dittatori non scelgono i sottoposti in virtù di conclamate doti professionali, ma unicamente per la loro capacità di applicare senza fiatare le loro direttive. Il che, con un effetto discendente lungo la catena di comando, non incoraggia l’autonomia decisionale degli ufficiali di alto, medio e basso livello che, prima di prendere qualsiasi iniziativa, devono consultare il comando sovraordinato, che a sua volta fa la medesima cosa, e così via fino a salire al massimo livello decisionale che magari si trova a Mosca. Sta di fatto che se un comandante di plotone russo, prima di contrattaccare una pattuglia ucraina infiltratasi nel proprio settore, deve attendere il parere di tutta la sfilza dei suoi superiori, quel comandante è destinato a perdere il plotone, la posizione e, soprattutto, la capacità di poter decidere autonomamente e rapidamente, al momento opportuno. Questa è, a mio parere, la fotografia che ci consegna la catena di comando dell’esercito russo in Ucraina.
Tutto ciò a differenza degli eserciti dell’Alleanza atlantica (gli addestratori degli ucraini…), che dal punto di vista tattico e fin dalla II Guerra Mondiale, hanno sempre puntato sull’autonomia operativa delle Unità e, sopratutto, dei reparti fino a livello di Compagnia, come i gruppi commandos o di reparti ancora più piccoli. Leggendarie furono le pattuglie dei Topi del deserto inglesi che in Libia diedero non poco filo da torcere agli italiani e all’Afrika Korp di Rommel.
Beninteso, che se non accade qualcosa di nuovo a livello negoziale, l’Ucraina è comunque destinata alla sconfitta finale se non altro per una questione di disparità dei “volumi” in campo, ma per i russi sarebbe una vittoria di Pirro sotto ogni aspetto e punto di vista, soprattutto per Putin, il nemico della pace, al quale il nostro Giuseppe Garibaldi – ne siamo ragionevolmente convinti – avrebbe affibbiato la stessa qualifica scatologica che destinò a Pio IX, il nemico dell’Unità italiana: «Un metro cubo di letame».
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