V’è certamente da ammirare gli inglesi e i loro ordinamenti statali che, in appena settantadue ore, hanno consentito di affrontare senza traumi, o crisi costituzionale, l’alternarsi di due capi del governo, la morte della regina, capo dello Stato, e la nomina di un nuovo re mentre, oltre la Manica, un’Europa alla canna del gas verrebbe da dire, non riesce a mettersi d’accordo neppure sul prezzo del medesimo
– Enzo Ciaraffa –
Regno Unito, Comuni, Buckingham Palace, chiesa di St James, primi ministri, dignitari, Castello di Balmoral, Principe di Galles, re Carlo III, Abbazia di Westminster, London Bridge: è in questa fiabesca girandola di luoghi, di nomi, di titoli e di cariche che, dall’otto settembre, giorno della morte della regina Elisabetta II, si sta smarrendo un po’ il mio repubblicanesimo. Anzi, dirò di più, quando in onore della loro sovrana appena deceduta i londinesi, in lacrime ma molto composti, si sono messi a cantare “God Save the Queen” d’avanti ai cancelli di Buckingham Palace, sebbene a distanza, anche io mi sono unito a loro, in sottovoce e con la medesima commozione e, lo confesso, con il ciglio umido.
Sono diventato monarchico?
No, sono soltanto un ammiratore del popolo inglese e della sua macchina statale, e ciò per una ragione oggettiva: in settantadue ore pochi ordinamenti sarebbero stati in grado di affrontare senza traumi e senza crisi costituzionale l’alternarsi di due capi del governo, la morte del capo dello Stato e la nomina di un nuovo re mentre, oltre il canale della Manica, un’Europa alla canna del gas verrebbe da dire, non riesce a mettersi d’accordo neppure sul prezzo del medesimo.
Questa è l’Inghilterra che ci lascia la regina Elisabetta, un Paese dove niente è capace di scuotere le certezze di un popolo storicamente abituato a contare innanzitutto su se stesso e che difficilmente si lascia cogliere di sorpresa dalla storia. Infatti, sia l’Invincibile Armata di Filippo II che l’esercito di Hitler non riuscirono mai a sbarcare in Inghilterra, nonostante il loro vantaggio strategico e la grande potenza militare. D’altronde, neppure l’Unione Europea super armata con leggi, leggine, veti e ricatti finanziari è riuscita ad avere ragione di questo popolo di scorza dura come le sue regine.
A questo pensavo la sera dell’otto settembre, quando, trattenendo a stento le lacrime, mi sono unito idealmente ai londinesi che erano d’avanti ai cancelli di Buckingham Palace a cantare “God Save the Queen”.
Ma forse le lacrime volevano venir giù non tanto per la dipartita di Elisabetta o per com’è fatto il popolo inglese, ma per come non è fatto il nostro popolo, sempre incline a vivere di pancia i grandi appuntamenti con la storia e a seguire, ciecamente, i tragici demagoghi che si alternano sul teatro della politica italiana, dai fratelli Gracchi di Roma antica ai nostri giorni.
Sarà per questa ragione che, benché avanti con gli anni e pur avendo visto la dipartita di molti politici nostrani, non ho mai sentito lo stimolo a cantare il nostro inno nazionale in occasione della loro morte e, anzi, per molti ho avuto la percezione che senza di loro l’Italia sarebbe stato un Paese migliore.
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