Sono molte le sensazioni che si provano, e non tutte razionalmente spiegabili con le parole, quando scarpinando sotto il solleone di Cefalonia s’inizia a salire verso la collina di San Teodoro per pregare, ognuno a modo proprio, sulle scale del memoriale eretto dallo Stato italiano per ricordare i militari della Divisione Acqui che preferirono morire combattendo piuttosto che arrendersi ai tedeschi
– Enzo Ciaraffa –
Proprio in questi giorni, forse in queste stesse ore di ottant’anni fa, la maggior parte dei militari italiani presenti in Grecia si stava battendo contro i tedeschi che, a seguito dell’armistizio da noi firmato con gli angloamericani a Cassibile l’8 settembre del 1943, stavano per trasformarsi da alleati in assassini, anche se nei giorni successivi alla firma con la quale l’Italia si era chiamata fuori dalla guerra in corso, i tedeschi avevano assunto soltanto un atteggiamento di guardinga diffidenza. Poi, dal 12 al 24 settembre, si scatenarono furiosi combattimenti quando gli italiani rifiutarono di cedere le armi o, in alternativa, di continuare al loro fianco la guerra fascista. I Reparti italiani presenti nell’isola di Lero, ad esempio, si arresero soltanto dopo avere subito 187 bombardamenti aerei, respinto un tentativo di sbarco dei tedeschi e perso migliaia di uomini. Anche se fu a Creta, a Corfù e nell’isola di Cefalonia in particolare che iniziò la strage, allorquando i tedeschi, una volta finiti i combattimenti, diedero inizio alla mattanza di Ufficiali, Sottufficiali e Soldati della 33^ Divisione Acqui, non riconoscendo loro lo status di combattenti regolari, perché Badoglio non aveva ancora compiuto quello che avrebbe dovuto essere il primo passo del suo governo all’annuncio dell’armistizio: dichiarare guerra alla Germania.
A Cefalonia era accaduto che i Quadri Ufficiali, Sottufficiali e Truppa della Acqui, visto che il loro Comandante, il Generale Antonio Gandin, non si decideva a prendere partito sulle misure da adottare contro i tedeschi, in quella che possiamo considerare la prima consultazione elettorale post-fascismo, per alzata di mano votarono all’unanimità di non arrendersi, preferendo ingaggiare una lotta disperata. Anzi, la prudenza di Gandin fu ritenuta eccessiva se non proprio un tradimento da molti dei suoi gregari, tant’è che uno di essi, un Carabiniere, gli lanciò addirittura una bomba a mano contro.
Bisogna dire che in quella situazione non era facile per Gandin decidere il da farsi, e benché oggi egli potrebbe apparire ai nostri occhi un irresoluto, di certo non era un vile poiché si fregiava di una medaglia d’argento e di due croci di guerra al valor militare conquistate durante la Grande Guerra. Comunque, la determinazione a combattere i tedeschi di quasi tutti gli uomini della Acqui aiuta a capire quanto fosse stata miope e scriteriata la scelta di Vittorio Emanuele e di Badoglio di non puntare sulla voglia di riscatto dell’esercito e del popolo italiano per chiudere col passato. Anche per colpa loro, dunque, la casetta rossa di San Teodoro ad Argostoli dove i tedeschi fucilarono la maggior parte dei prigionieri, divenne il mattatoio nel quale si consumò il sacrificio della Divisione, dove molti Ufficiali vi affrontarono il plotone di esecuzione cantando l’Inno del Piave e scambiandosi un’estrema parola d’ordine man mano che venivano messi al muro: «Facciamo vedere a questi stronzi come si muore».
Bisogna anche dire, per oggettività storica, che il risentimento dei tedeschi nei nostri confronti, che purtroppo evolse in bestiale ferocia, dal punto di vista meramente giuridico era fondato poiché l’Italia e la Germania nel 1939 avevano convenuto con il Patto d’Acciaio (all’articolo 5) di «Non concludere armistizi e pace se non di pieno accordo fra loro». E qui si fanno pesanti le responsabilità di Badoglio e degli altri Generali che l’8 se l’erano data a gambe abbandonando le forze armate e l’intero Paese nelle mani dei tedeschi. Sì, perché non avendo ancora dichiarato guerra alla Germania e denunciato lo scellerato patto, il governo del Sud di Badoglio aveva condannato i combattenti ad essere considerati dei franchi tiratori dai nazisti, al pari di spie e sabotatori.
Ma le conseguenze di un ritardo che si preannunciava foriero di funesti effetti per chi fosse stato in grado di capirlo, più che il Maresciallo Badoglio preoccupò il comandante in capo Alleato, Dwight Eisenhower, che tecnicamente era ancora un nostro nemico: «Dal punto di vista Alleato, la situazione può anche restare com’è attualmente, ma per difendere questi uomini, nel senso di farli divenire combattenti regolari, sarebbe assai più conveniente per l’Italia dichiarare la guerra». Era tutto dannatamente chiaro … perché il traccheggiamento di Badoglio a riguardo, perché, cosa altrettanto grave, l’armistizio sorprese quasi tutti i vertici militari periferici? Perché in Grecia i combattenti italiani antitedeschi non ricevettero aiuto dal loro governo (del Sud…) che, dopo la fuga da Roma, si era installato a qualche centinaio di miglia marine? E anche per tentare di rispondere a queste domande bisogna fare qualche passo indietro.
In vista dell’armistizio, il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Mario Roatta, con la tardiva e pressoché sconosciuta Memoria O.P. 44, che peraltro si sarebbe dovuta applicare soltanto alla ricezione di un ordine successivo, si convinse, o fece finta di convincersi, di avere impartito alle Forze Armate le disposizioni preparatorie per un capovolgimento di fronte e di alleanze. A quella Memoria, scomparsa dagli archivi dello Stato Maggiore e che soltanto qualche comandante d’Armata ricevette tramite un fogliettino dattiloscritto privo di intestazione e di firme, seguirono due promemoria applicative. Per desumere il tenore e l’utilità di quei promemoria, basta riportarne la solita, badogliana premessa introduttiva per i pochi Generali che ebbero la ventura di leggerli: «È lasciata libertà ai Comandi di Armata di assumere l’atteggiamento, in confronto dei germanici, che sarà ritenuto opportuno». Come dire arrangiatevi da soli. Possibile che Badoglio, uno dei Generali più anziani d’Europa non avesse sentito riecheggiare in quell’autorizzazione lo spirito delle stesse parole che anche lui aveva indirizzato ai comandanti delle Unità italiane al momento di entrare nella innaturale, folle guerra a fianco della Germania?
Era, infatti, lo stesso spirito di quando, in assenza di un decente piano di guerra, nel 1940 egli aveva delegato piena autorità, iniziativa e responsabilità ai suoi sottoposti. In altri termini, le forze armate italiane erano entrate in guerra agli ordini di Badoglio in qualità di Capo di Stato Maggiore Generale che, nella circostanza, aveva scaricato sui sottoposti le proprie responsabilità di capo delle Forze Armate. Ebbene, quelle stesse Forze sarebbero dovute uscire dalla guerra avendo a capo del governo il medesimo Badoglio che, tanto per cambiare e sebbene indirettamente, scaricava ancora una volta su di esse le sue responsabilità politiche, come quella di non aver dichiarato guerra alla Germania già l’otto settembre del 1943. Quella fu la cornice nella quale si disegnò la sorte della Acqui del Generale Gandin che, tanto per complicare ancora di più la situazione, era di sentimenti filo tedeschi. Fu, infatti, il suo inutile negoziare a dar tempo al Comandante tedesco dell’area, il Generale Hubert Lanz, di rinforzare la posizione dei suoi Reparti prima dell’inizio della lotta.
La battaglia che gli uomini della Acqui vollero ingaggiare con i tedeschi, si concluse con una sanguinosa sconfitta, le cui cause non sono da ricercarsi soltanto nell’indecisione di Gandin ma anche, e soprattutto, nella mancanza di un minimo supporto logistico dalla madrepatria. Ciò perché lo Stato Maggiore, che dopo la fuga da Roma si era insediato a Bari (distante, quindi, soltanto 400 miglia marine da Cefalonia), non aveva fatto nulla per sostenere la lotta intrapresa dalla Acqui, anzi, alle sue reiterate richieste di aiuto aveva smesso anche di rispondere.
L’unico che in quei frangenti ricordò di essere un alto Ufficiale della Regia Marina e prendere delle iniziative immediate e concrete per aiutare la Divisione Acqui fu il Comandante della piazza di Brindisi, l’Ammiraglio Giovanni Galati, il quale, in fretta e furia, stipò di armi, munizioni e viveri le torpediniere Clio e Sirio e si lanciò in mare per andare a soccorrere gli eroici combattenti di Cefalonia. Ma, nonostante l’armistizio, gli Alleati continuavano a non fidarsi di noi e, per paura che, in qualche maniera, quei rifornimenti andassero a finire in mano ai tedeschi, ingiunsero – pena un raid aereo per affondarle – il rientro immediato delle due torpediniere di Galati. A quel punto per la Acqui fu davvero la fine e il prezzo pagato per cotanta ignavia fu la vita di oltre 9.000 uomini tra morti in combattimento, fucilati e periti in mare, anche se il numero preciso delle vittime della barbarie tedesca non lo sapremo mai.
Nel 2011 sulla Divisione Acqui avevo fatto delle ricerche per corredare un mio libro, ricerche nel corso delle quali avevo incontrato tanti episodi di un eroismo antico e nobile come quello dei martiri del Risorgimento italiano, e tanti nomi di militari di ogni ordine e grado che non cito per non far torto ai loro eroici ed ignoti compagni, così come taccio i nomi di coloro che a Cefalonia si comportarono da impostori o da vigliacchi (che pure ce ne furono), allo scopo di evitare le polemiche che non si addicono ai morti. Ebbene, al termine di quelle ricerche feci un silente giuramento: «Commilitoni di Cefalonia, non so esattamente quando, ma prima di morire verrò a trovarvi». E le promesse fatte ai morti valgono più di quelle fatte ai vivi! Lo scorso 25 luglio, quando sono sbarcato a Cefalonia, dopo aver scarpinato sotto il solleone ionico ho raggiunto la collina di San Teodoro per meditare sulle scale del memoriale eretto dallo Stato italiano a ricordo dei militari della Divisione Acqui.
Perdonatemi, cari amici che ci seguite, se non aggiungo altro su quella visita agognata per dodici anni, ma tutto ciò che quel giorno è avvenuto dentro di me, i trasalimenti dell’anima, la commozione, la pietà e l’orgoglio provati meditando su quanto accaduto in quell’isola ottant’anni prima appartiene soltanto a me e a “loro”, ai ragazzi che ancora una volta a prezzo della vita, seppero essere migliori della loro classe dirigente.
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