Oddio, arriva la data della marcia su Roma!

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Alla base della nascita del regime fascista ci furono molte complicità, troppi silenzi, infinite omissioni e tante viltà istituzionali. Ma ad angustiarci il prossimo 28 ottobre, data della marcia su Roma, non saranno coloro che, eventualmente, inneggeranno al duce o si esibiranno sui social in tragiche pose da camerati ma chi, approfittando della ricorrenza, tenterà di ritagliarsi un po’ di visibilità con pelose attestazioni di democraticità, specialmente adesso che al governo c’è il Centrodestra

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Già immaginiamo – specialmente adesso che il Centrodestra ha le sorti del Paese in mano – che cosa succederà il prossimo 28 ottobre, centenario di quella tragica pagliacciata ricordata come la Marcia su Roma che portò alla caduta del governo Facta e il fascismo al potere. Noi speriamo che quel giorno nessun imbecille si metta a celebrare sui social un evento che segnò l’inizio di una catastrofe biblica per il nostro Paese e che, tra l’altro, non ebbe quelle origini epiche che il mito fascista gli attribuì. Però, a voler spiegare la grottesca anabasi delle raccogliticce bande fasciste dobbiamo, necessariamente, andare a rimestare il brodo di coltura nel quale essa maturò.

Per le frustrazioni nate al congresso della pace di Versailles dove gli americani, gli inglesi e i francesi non volevano onorare gli accordi di acquisizioni territoriali stipulati con l’Italia in caso di vittoria nella Grande Guerra, ma anche a causa della crisi economica e della propensione alla sov­versione dei socialisti massimalisti e della destra nazionalista, in Italia incominciò a dilagare un lievitante ribellismo tra le masse, sul quale si sarebbe innestato il movimento fascista.

Quello dei socialisti massimalisti fu, però, un ribellismo barricadiero, ideologico diremmo oggi, ma anche inutile perché, una volta messi fuori gioco i riformisti della corrente di Filippo Turati, essi furono incapaci di scegliere – esattamente come la Sinistra di oggidì – tra riformismo e massimalismo, contribuendo a fare aggravare la già gracile salute di un sistema politico che, grazie a una loro svolta riformista, avrebbe consentito il ritorno di Francesco Nitti al governo e, probabilmente, l’arresto dell’eversore Mussolini.

Infatti, “Cagoja” – come D’Annunzio aveva definito Nitti – era l’unico che per capacità e prestigio poteva formare un governo di unità nazionale e sbarrare la strada all’uomo di Predappio verso il potere. E furono ancora i socialisti a commettere l’errore che avrebbe fornito al fascismo ciò che più gli mancava sul terreno: le Sturmtruppen. Infatti, dando addosso anche fisicamente agli ex combattenti, essi li sospinsero fatalmente tra le braccia di D’Annunzio prima e del movimento fascista dopo. I militari, infatti, agli occhi dei socialisti massimalisti nei cui ranghi aveva militato lo stesso Mussolini, erano “colpevoli” di essere i guardiani dello Stato legale perché legati a Casa Savoia.

Con tali presupposti, puntuale, come una pioggia che scroscia dopo tanto tuonare, arrivò l’impresa di D’Annunzio il quale, senza attendere la decisione della Conferenza di Pace ancora in corso a Versailles, da Ronchi marciò sulla contesa città di Fiume, un’impresa alla quale l’Esercito e la Marina italiani non si mantennero in un primo mo­mento estranei. Quella “marcia” costituì un pericoloso precedente perché avrebbe fatto da apripista alla più nota, ma altrettanto cialtronesca, marcia su Roma.

A Fiume il poeta pescarese, dopo aver proclamato “La Reggenza del Carnaro” con tanto di costituzione inventata da lui, organizzò delle vere e proprie bande di pirati dediti all’assalto di piroscafi e all’occu­pazione e taglieggiamento di alcune isolette dell’adriatico che il trattato di Rapallo (appena firmato dall’Italia!) aveva assegnato alla Jugoslavia. Quando, finalmente, il governo trovò la forza di porre fine alla Mompracen di D’Annunzio, questi rimise i poteri nelle mani delle autorità civili e si ritirò da Fiume non prima, però, di aver fatto uno di quei discorsi che tanto in­fiammavano l’animo dei nostri nonni che lo seguirono anche se, in verità, non ci capivano niente: «Attendo che il popolo fiumano mi inviti ad uscire dalla città, ove non venni che per la sua salute. E nell’uscirne, gli lascerò in custodia i miei ricordi, il mio dolore e la mia vittoria».

Purtroppo, oltre ai ricordi, D’Annunzio a Fiume lasciò anche la chiara dimostrazione che lo Stato liberale era in crisi profonda e il clima avventuroso che aveva contribuito a creare, imbrodandosi con la complicata situazione politica ed economica, avrebbe reso rigogliosi e prolifici i germi del fascismo che, dopo la sconfitta nelle elezioni politiche del 1919, era dato per morto. Lo resuscitarono i soldi degli agrari e degli industriali impauriti dal biennio rosso 1919 – 1920, periodo caratterizzato dall’occupazione delle fabbriche e delle terre. Sicché la promessa di somministrare olio di ricino e manganellate alle leghe operaie e ai braccianti, rese appetibile il movimento di Mussolini. In quegli anni anche la classe dirigente diede il peggio di sé quando il re e i vertici militari commisero il primo degli atti di viltà che porteranno alla morte dello Stato liberale.

Quando nei giorni di ottobre di cento anni fa il re Vittorio Emanuele chiese al generale Diaz come si sa­rebbero comportati i militari se il governo avesse ordinato loro di disperdere l’Armata Brancaleone fascista che stava di­rigendo su Roma, la risposta non fece onore a Diaz, né al re che, come comandante supremo delle Forze Armate, la incassò senza replicare, senza fare niente: «Maestà, l’Esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova». E invece bastavano quattro cannonate per disperdere l’accozzaglia che stava dirigendo su Roma. Insomma alla base della nascita del regime fascista ci furono soltanto omissioni, connivenze e atti di codardia istituzionale, di azioni epiche da celebrare dopo un secolo proprio non ne ricordiamo.

Eppure, v’è da scommetterci, ad angustiarci tra qualche settimana non saranno solo quei quattro fessi che sui social inneggeranno al duce o proveranno a esibirsi in grottesche pose da navigati camerati, ma chi, approfittando della ghiotta coincidenza, tenterà di mettersi in mostra con pelose attestazioni di democraticità e di malcelata ostilità verso il governo retto da Giorgia Meloni. D’altronde, che cosa potrebbe succedere tra pochi giorni lo ha già anticipato, qualche mese fa, la ministra francese per gli affari europei, Laurence Boone: “Vogliamo lavorare con Roma, ma vigileremo sui diritti”.

Dovrebbe vigilare sul tasso di democraticità del governo italiano la rappresentante di un Paese, la Francia di Vichy, che fu filonazista? Ma per piacere! Meglio farebbe la signora Boone a ricordare la data del 31 luglio 1944, quando con gli Alleati liberatori alle porte di Parigi, i suoi connazionali di Vichy fecero partire l’ultimo treno di ebrei verso Auschwitz portando, così, il numero delle vittime della shoah francese a 80.000 persone. Poi, ad angustiarci potrebbe seguire la “preoccupazione” di qualche campione di antifascismo dalla Spagna guidata dal socialista Pedro Sanchez, dimenticando, eventualmente, che lui stesso è una scheggia del regime fascista di Francisco Franco che governò la Spagna in nome della monarchia e, alla sua morte, designò a succedergli Juan Carlos di Borbone, il papà, puttaniere in esilio, dell’attuale re che gli ha conferito l’incarico di primo ministro.

La Sinistra norvegese solitamente si fa i fatti suoi ma, ove volesse parlare della ricorrenza con la puzzetta sotto il naso, le si potrebbe ricordare il regime filo-nazista di Quisling.

Il Portogallo di Salazar manco a parlarne. L’Austria patria di Hitler, del cancelliere filofascista Dolfuss e dall’Anschluss non dovrebbe neppure fiatare sull’argomento.

I compagni russi, con la faccia di tolla che si si ritrovano, saranno pronti a negare perfino di essere stati alleati dei nazisti (patto Molotov-Ribbentrop) nel far scoppiare la II Guerra Mondiale. Non a caso quando essi parlano di quella guerra la definiscono guerra patriottica e la fanno iniziare il 22 giugno del 1941, giorno in cui Hitler attaccò la Russia, e non, invece, il 1° settembre 1939 quando assieme ai tedeschi aggredirono la Polonia.

Figuriamoci i post-comunisti nostrani che, come tutti i fanatici, non riescono a uscire dalla cappa di piombo della loro brutta storia che – similes cum similibus – ha la stessa matrice socialista del fascismo, anzi, uno dei fondatori storici del Partito Comunista Italiano, Nicola Bombacci, finì fucilato a Dongo assieme a Mussolini.

Perciò, preghiamo tutti con largo anticipo affinché, il prossimo 28 ottobre, data della marcia su Roma, non vengano a maltrattarci gli zebedei con i loro prevedibili esercizi di antifascismo ammuffito, Anpi in testa, mentre sotto sotto hanno un’inconfessata simpatia per il più grande nazista del nostro secolo, quel Vladimiro Putin che sta martoriando l’Ucraina e la sua popolazione.

Ascriviamo, perciò, il fascismo a un pezzo di bruttissima storia del nostro Paese, prendiamo atto (tutti!) che la Resistenza, pur con le sue luci e ombre, ci condusse alla scelta repubblicana e al varo di una Costituzione, e adoperiamoci affinché certe nefaste esperienze, che sono nel modo di pensare prima che nel modo di essere, non abbiano più a ripetersi.

Se abbiamo paura che possa accadere di nuovo?

Certo che abbiamo paura, ma non di Giorgia Meloni bensì dei fascisti che si spacciano per antifascisti, come dire di coloro che hanno la memoria corta perché ricordano la marcia su Roma del 28 ottobre del 1922 e non il 23 ottobre del 1956 quando la Russia sovietica soffocò nel sangue la rivolta ungherese, che ricordano con giusto disprezzo la Repubblica di Salò ma non l’invasione della Cecoslovacchia del 20 agosto 1968, che ricordano i tribunali speciali fascisti ma non i gulag comunisti.

Ma è proprio per questa ragione che noi continueremo a scommettere sulla libertà di pensiero e a batterci contro il fascismo del politically correct.

(La copertina è tratta da una scena del film La marcia su Roma)

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