Napoli, Fiordaliso e lo stupido di Perugia

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Nella Napoli del XIV secolo, nella zona del porto, in un vicolo che già nel nome era un programma giacché si chiamava Malpertuso, viveva Fiordaliso la Siciliana, così conosciuta perché, secondo Boccaccio e Croce, era originaria della Sicilia. Nulla vieta, però, di ritenere che il soprannome alla bella Fiordaliso derivasse da certe sue specialità professionali. A quel tempo, infatti, esisteva il modo di fare l’amore alla francese, alla fiorentina, alla spagnola e probabilmente Fiordaliso era rinomata per saperlo fare alla siciliana, anche se troviamo piuttosto difficile immaginarne oggi combinazioni e variabili

– Enzo Ciaraffa –

La Napoli della metà del XIV secolo che contava all’incirca 60.000 abitanti, per molti aspetti non era diversa da certe turbolente metropoli di oggi, tant’è che il suo governatore – o come si chiamava allora Conestabile – era costretto a decretare il coprifuoco per evitare che, al calare della notte, le strade divenissero luoghi di rapina e di malaffare, più di quanto già non lo fossero di giorno. Una delle zone più insidiose in tal senso era quella intorno al porto, dove, in malsani bassi, si ammassava un’umanità lesta di mano e di coltello. Vi abbondavano taverne e prostitute come in tutte le zone portuali di ieri e di oggi, luoghi di ritrovo anche per la gioventù gaudente dell’epoca, come si arguisce dalla lettera-burla in dialetto napoletano che nel 1339 Boccaccio scrisse all’amico Francesco de’ Bardi, con cui gli comunicava la (falsa) notizia che la prostituta Machinta, che entrambi erano soliti frequentare, gli aveva scodellato un figlio: «Faccimote adunqua, caro fratiello, a saperi, che lo primo juorno de sto mese de Deciembro Machinti filliao, e appe uno biello figlio masculo, cha Dio nce lo garde, e li dea bita a tiempo, e a biegli anni. E per chillo cha ’nde dice la mammana cha lo levao, nell’ancuccia tutto s’assomiglia allu pate».

Proprio nella zona del porto, in un vicolo malfamato che già nel nome era tutto un programma giacché si chiamava Malpertuso (buco cattivo), viveva Fiordaliso la Siciliana, così chiamata perché, secondo Boccaccio e Croce che però in alcune opere la chiamarono anche Flora, era originaria della Sicilia. Ella si prostituiva protetta da un pappone il cui nome evocava il suo riprovevole mestiere: Scarafone (scarafaggio). Noi, però, incliniamo a ritenere che il soprannome della bella Fiordaliso derivasse da certe sue specialità, ehm…, diciamo professionali. A quel tempo, infatti, esisteva il modo di fare l’amore alla francese, alla fiorentina, alla spagnola e probabilmente Fiordaliso era rinomata per saperlo fare alla siciliana, anche se troviamo piuttosto difficile oggi immaginarne combinazioni e variabili.

Fiordaliso, in compagnia di una vecchia mezzana, era solita adescare i propri clienti al mercato dei cavalli che si teneva dove oggi è piazza Dante, stante che vi esistevano alcune scuole di equitazione per nobili, mercanti e cavalieri, giacché all’epoca la cavalcatura potevano permettersela soltanto essi, gente in grado di ben pagare anche i suoi servizi. Peraltro, il mercato dei cavalli che si teneva nella capitale del Regno di Napoli era rinomato in tutta Italia per la consuetudine degli allevatori di incrociare le fattrici locali con stalloni spagnoli, a loro volta frutto di incroci con purosangue arabi e inglesi.

Il merlo ideale per la nostra bella meretrice si materializzò nella persona di tale Andreuccio, il giovane figlio di ser Pietro da Perugia arrivato a Napoli per acquistare cavalli. Il caso volle che la mezzana di Fiordaliso, avendo servito anni addietro nella casa di ser Pietro, sia a Palermo che a Perugia, si precipitasse a gettare le braccia al collo di Andreuccio come si fa con una persona cara.

Benché non avesse ancora una collaudata esperienza nel commercio, il giovane perugino – informa Boccaccio nel Decamerone – aveva convinto il padre a finanziare con cinquecento fiorini d’oro il suo primo viaggio d’affari e la vista della scarsella rigonfia di monete, che il giovane aveva aperto più di una volta nel corso delle trattative con i cavallari del mercato, aveva reso la bella meretrice determinata a impadronirsene con un abile marchingegno.

Per il tramite di una ragazzina, Fiordaliso fece recapitare un messaggio all’ignaro Andreuccio, un messaggio congegnato in modo che potesse sembrare – a seconda dell’interpretazione – pruriginoso o casto, sicuramente intrigante per un giovanotto con gli ormoni a posto.

Al destinatario non passò neppure per l’anticamera del cervello il fatto che l’ambasceria potesse nascondere qualche tranello, al contrario si sentì solleticato nell’amor proprio perché si riteneva ricco, bello ed elegante, insomma in possesso di tutte le qualità per interessare una disinibita partenopea affetta da quelle che oggi chiamiamo ninfomania ed esterofilia.

Avendo in precedenza attinto dalla serva tutte le notizie riguardanti la famiglia di Andreuccio, la messinscena preparata per il giovane perugino fu grandiosa, e neppure nella immaginifica Napoli del film Operazione San Gennaro, di oltre seicento anni dopo, avrebbero saputo far di meglio. Fiordaliso, infatti, agghindata come un’austera matrona, andò incontro ad Andreuccio e, ostentando tutta la pudicizia che, evidentemente, non possedeva, lo introdusse in un’abitazione che sembrava quella di una persona perbene e anche di grandi mezzi.

«Andreuccio mio…», quell’esclamazione suonò alle orecchie dell’ospite appena entrato come l’anteprima di chissà quali fantasie erotiche, ben lontano dall’immaginare il seguito! Raggomitolatasi accanto a lui, la padrona di casa non dispensò ad Andreuccio – com’era nelle sue attese – i preliminari di una notte bollente, ma una storiella così bislacca che, diciamo la verità, soltanto un fesso poteva bere.

Fiordaliso gli rivelò di essere il frutto di una scappatella di ser Pietro durante la sua permanenza a Palermo, e che lei si trovava a Napoli perché sposata, ovviamente infelicemente, con un fuoriuscito politico siciliano. Man mano che proseguiva il racconto, le fantasie di Andreuccio cedevano il posto a un sentimento fraterno contento, in fondo, di aver trovato a Napoli una sorella così a modo, e si fermò a cenare con lei. Ma la cena a base di ceci conditi col lardo e di altri pezzi di maiale, il tutto generosamente innaffiato dal Greco di Napoli, il caldo dell’estate e le confidenze fraterne andarono oltre l’inizio del coprifuoco, per cui il giovane dovette acconciarsi e pernottare presso la sedicente sorella siculo-napoletana.

Quando fu l’ora di andare a dormire, adagiato abiti e scarsella su di una cassa posta ai piedi del letto, Andreuccio – per dirlo con le insolitamente pudiche parole di Boccaccio nel Decamerone – sentì la necessità di «…sgravare il ventre» e, per la bisogna, si diresse verso un cubicolo con un grande pitale di creta verniciata che fungeva da water. Appena vi pose piede, però, alcune assi del pavimento di legno cedettero e, da un momento all’altro, il nostro si ritrovò seminudo e malconcio nella chiavica del vicoletto sottostante.

Dopo essersi ripreso dalla caduta e pensando soprattutto alla scarsella con i cinquecento fiorini d’oro che aveva lasciato sulla cassa ai piedi del letto, Andreuccio picchiò all’uscio e gridò come un pazzo per farsi aprire dalla sorella, ma ottenne soltanto i rimbrotti sguaiati provenienti dalle vicine stamberghe e la minaccia di bastonatura da parte di Scarafone, che era stato complice – manco a dirlo – di Fiordaliso nella preparazione del pavimento cedevole. A farlo desistere da ogni altro tentativo di recuperare la scarsella assieme agli abiti, provvidero i vicini di casa di Fiordaliso, che erano della sua stessa risma, sbucati da ogni dove con delle torce in mano. Questi consigliarono al disgraziato di cambiare aria se non voleva fare una brutta fine per mano di Scarafone.

Fu così che, dopo avere dato addio ai fiorini, fetido e poco vestito, il giovanottone di Perugia si diresse verso il porto per darsi una sciacquata a mare prima di rientrare alla locanda dove alloggiava, sperando che né il locandiere, né gli altri commercianti che vi alloggiavano si accorgessero di ciò che gli era accaduto, e ridessero alle sue spalle.

Lavatosi alla meglio, Andreuccio imboccò la Strada dei Catalani – un tracciato che oggi si trova tra via De Pretis e via Medina – meditando sulla brutta situazione in cui si trovava perché, a parte la figura del fesso che avrebbe fatto col padre, la perdita di cinquecento fiorini d’oro non sarebbe stata uno scherzo neppure per chi avesse avuto finanze più solide delle sue. Fu distolto da queste nefaste meditazioni notturne quando, nonostante il coprifuoco, vide venirgli incontro due persone che avanzavano guardinghi alla luce di una fioca lanterna: dall’andatura non sembrava una ronda ma, visti gli accadimenti della prima parte della nottata, pensò di essere prudente.

Si nascose, infatti, in un angolo buio e capì dai loro discorsi che erano due violatori di tombe bisognosi di altre braccia per sollevare la pesante lastra di marmo della tomba dell’arcivescovo di Napoli Filippo Minutolo, seppellito pochi giorni prima e la cui salma volevano spogliare dei preziosi paramenti: in particolar modo di un anello molto prezioso. Andreuccio, pensando che la parte del ricavo di un facile furto lo avrebbe risarcito almeno parzialmente della fregatura appena rimediata, emerse dal buio e si propose di far parte della combriccola.

Una volta scostata la lastra di marmo della sontuosa tomba, i compagni di malaffare vollero che fosse lui a scendere per spogliare la salma e, sebbene con ritardo, Andreuccio capì che, non appena avrebbe passato loro la refurtiva, quelli sarebbero scappati. Perciò, con la complicità del buio, tenne per sé il prezioso anello pastorale del vescovo e passò ai complici sopra di lui soltanto oggetti di scarso valore, informandoli che altro non v’era da prendere. In un battibaleno, allora, e con uno stridio sinistro, il coperchio del sarcofago venne fatto scivolare nella primitiva posizione e Andreuccio si ritrovò prigioniero di un putrescente cadavere.

Trascorse il resto della notte in quell’insostenibile situazione e la mattina seguente, mentre gli arrivava il rumore ovattato dei passi dei fedeli che accedevano al tempio, gli venne la tentazione d’invocare aiuto. Se lo avesse fatto, però, i suoi liberatori lo avrebbero sicuramente consegnato al Conestabile, e con i ladri sacrileghi la giustizia del tempo non era tenera. Per sua fortuna, in quella calda notte d’estate di settecento e passa anni fa a Napoli non tutti dormivano perché, a metà della seconda notte passata in compagnia del sempre più fetido cadavere dell’arcivescovo, Andreuccio sentì prima dei passi, poi dei bisbigli e, infine, il rumore del coperchio di marmo che scorreva di lato: erano arrivati altri depredatori di tombe! Stavolta, però, reso più accorto dagli ultimi eventi, appena intravide la luce di una lanterna, Andreuccio diede prima un urlo terrificante e poi balzò fuori dalla tomba, contando sullo sgomento che l’apparizione ultraterrena avrebbe suscitato tra i suoi involontari liberatori. Ma a rimanere sgomento fu proprio lui, perché i mariuoli, in disordinata fuga nella direzione opposta alla sua, erano dei …frati!

Diciamo la verità, sia pure con tutte le riserve di ordine morale sul suo operato, al cospetto di quei religiosi, mariuoli di bassa lega, e del fessacchiotto di Perugia, il personaggio di Fiordaliso possiede tutta la determinazione di un’eroina, la bellezza di una dea e l’arguzia di Napoli eterna.

(La copertina, opera di Donato Tesauro, è stata tratta dal libro “Le 7 figlie del sole” di Enzo Ciaraffa)

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