I politici continuano a produrre quantità inverosimili di slogan ma il guaio è che sono di così deprimente caratura da non accorgersi di scimmiottarsi a vicenda, sicché alla fine la destra e la sinistra finiscono col dire le stesse cose e, quel che è peggio, lo fanno con le medesime parole. E poi i politici si stupiscono se l’elettore, quando si reca nelle urne, fa scelte controcorrente e, per molti aspetti, più dinamiche del loro ingessato pensiero
– Enzo Ciaraffa –
Gli slogan e le parole d’ordine sono tipici di quelle classi politiche e dirigenti che devono nascondere l’impreparazione, la mancanza di idee e di programmi, dietro concetti ammiccanti, coinvolgenti sul piano emotivo ma assolutamente vuoti di significato. Gli slogan, peraltro, non hanno mai portato bene ai politici nostrani sebbene questi, imperterriti, continuino a produrne in quantitativi industriali anche se poi finiscono col rimanerne puntualmente seppelliti.
Vincere! E vinceremo! – Lavorare meno ma lavorare tutti – Rivoluzione liberale con un milione di posti di lavoro – La gioiosa macchina da guerra – Rottamazione della vecchia classe politica. Questi sono stati soltanto alcuni degli slogan che hanno portato ad una bruttissima fine i loro ideatori o, quando è andata bene, li hanno seppelliti sotto montagne di ridicolo. In ordine di tempo, i copywriter di cotanti slogan furono Mussolini, i leader sindacali, Berlusconi, Occhetto e Renzi.
La II guerra mondiale, che Mussolini voleva vincere a suon di trombonate e di slogan, la perdemmo invece malamente e lui finì appeso a piazzale Loreto.
Alla fine i sindacati sono riusciti realmente a far lavorare meno i lavoratori perché, grazie al loro collateralismo con una sinistra che solo recentemente si è (mal) convertita alle politiche liberiste, tra poco in Italia non ci sarà più lavoro per nessuno.
Lo slogan della gioiosa macchina da guerra che l’allora segretario del Pds, Achille Occhetto, ideò per battere il Cavaliere, si tramutò in una rovinosa debacle elettorale e portò alle sue dimissioni.
La rivoluzione liberale e il milione di posti di lavoro promessi da Berlusconi nel 1994, si tramutarono in politiche illiberali e con nessuna crescita di posti di lavoro, fintanto che un colpo di stato ordito dall’Ue e dal Fmi (Fondo monetario internazionale), sotto l’abile regia del Quirinale, non lo cacciò via.
E veniamo all’ultimo copywriter, il grande rottamatore del Pd, quel Renzi che alla fine ha rottamato soltanto il partito e il grande consenso del quale godeva, finendo a sua volta rottamato dagli italiani.
Ebbene, nonostante tali precedenti, i politici continuano a produrre quantità inverosimili di slogan… il guaio è che essi sono di così deprimente caratura da non accorgersi di scimmiottarsi a vicenda, sicché alla fine la destra e la sinistra finiscono col dire le stesse cose e, ciò che è peggio, lo fanno con le medesime parole.
A quel punto l’elettore non capisce più quale sia l’offerta politica di entrambi. E poi i politici si stupiscono se i populisti (così la sinistra al caviale chiama il popolo) quando si recano alle urne, fanno delle scelte controcorrente e, per molti aspetti, più dinamiche del loro pensiero.
Vi siete accorti dello slogan che sta andando per la maggiore in questi mesi? Vi rinfreschiamo la memoria: «Questo governo è diviso su tutto!». Il bello è che a dirlo sono quelli che accusano il governo di non volersi confrontare con loro in Parlamento. Come dire che è legittimo per un governo confrontarsi con le opposizioni, ma non lo è confrontarsi al suo interno perché se lo fa «…è diviso su tutto». Beh, converrete che come concezione democratica fa un po’ acqua.
Il guaio dei copywriter della politica è che essi continuano a non accorgersi che l’elettore non è più il babbione di qualche trentennio fa, ha perso il suo timore reverenziale sui social e, di conseguenza, il suo consenso non va più a coloro che si propongono come i sacerdoti del “saper fare”, cosa peraltro tutta da dimostrare, ma a quelli che sanno esibire i muscoli del “voler fare”.
E ad invertire questa tendenza non basteranno gli slogan, o gli assist subliminali di dieci festival di Sanremo ogni anno e di tutti i media del mondo, non basteranno le mene del sistema di potere, dell’Ue, della Chiesa e del Quirinale perché quando il popolo (reale) si mette in marcia, le cose sono due… o lo si ferma a fucilate come sta avvenendo in queste ore nel Venezuela, o gli si restituisce quel diritto fondamentale che gli appartiene per dettato costituzionale: il diritto all’autodeterminazione