L’atto di morte della democrazia lo stanno firmando i media

Share
L’informazione sta facendo, stavolta pericolosamente, quello che ha sempre fatto e cioè schierarsi con la parte politica ritenuta vincente, dando così inizio a una rappresentazione che ormai viene replicata tutti i giorni, ovvero la ripartizione della politica italiana tra buoni e cattivi, tra democratici e antidemocratici. Il paradosso è che sono proprio i cosiddetti democratici ad indulgere col terrorismo fisico e psicologico contro gli avversari politici mentre, sotto sotto, cova la loro voglia di ritornare ai manifesti-appelli del recente passato contro Salvini, in altre parole alla lista nera nella quale segnare i “nemici” del loro concetto di democrazia

***

Nella settimana appena trascorsa sono accaduti alcuni episodi che dovrebbe far riflettere tutti, la politica e il mondo dell’informazione in modo particolare. Il primo episodio è avvenuto sulla spiaggia di Bibbona, dove Beppe Grillo ha mandato in ospedale un giornalista di Rete 4 che tentava d’intervistarlo. In altre parole il principe del Vaffa si è comportato come un qualsiasi Roberto Spada dell’omonimo clan malavitoso di Ostia che tre anni fa mandò al pronto soccorso un giornalista della Rai che tentava di parlare con lui. Rilievo mediatico: quasi pari a zero.

Qualche giorno dopo e sempre in Toscana, di preciso in quel di Pontassieve, un’immigrata congolese ha aggredito fisicamente Matteo Salvini che si trovava nella zona per la campagna elettorale, una falla clamorosa del servizio di vigilanza intorno al leader leghista, nonché senatore della repubblica ed ex ministro degli Interni: una considerazione su questo grave accadimento ce la conserviamo per la fine dell’articolo fine.

Sabato notte della settimana scorsa, invece, a Colleferro in provincia di Roma, quattro balordi palestrati hanno ucciso, a botte e per futili motivi, un bravo giovane originario di Capo Verde. Si è trattato di balordi attossicati dalla droga e dal clima d’impunità che ormai in questo Paese – venuta meno la certezza della pena – si respira a pieni polmoni. Anche se i soliti, noti media del mainstream hanno tentato di far passare i quattro assassini come persone animate da pulsioni razziste e/o sovraniste, ma sono stati subito smentiti dalle prime valutazioni del magistrato incaricato delle indagini.

Ebbene, negli altri due accadimenti, eccetto qualche melensa frase di solidarietà per dovere d’ufficio verso il giornalista aggredito da Grillo e per il senatore leghista da parte di alcuni politici e cariche istituzionali, non ci è parso che i gran sacerdoti del giornalismo si siano spesi molto, né che abbiano capito che cosa stia realmente smuovendosi nel profondo della società italiana. Il fatto, anzi, che essi continuino con la tiritera che la lievitante violenza nella nostra società sia tutta colpa dei sovranisti (Massimo Giannini su La7 ha addirittura sostenuto che la colpa degli assalti alla sua persona è colpa di Salvini), dimostra soltanto due cose: o sono incapaci di guardare oltre la punta del loro naso, o sono in malafede. Un’ipotesi non esclude l’altra ovviamente.

Ma la miopia e la malafede non sono un fatto nuovo in Italia perché, verso la metà degli anni Sessanta del secolo scorso che pure vide rifulgere alcuni giornalisti di grandissimo spessore, se l’informazione avesse saputo cogliere e oggettivamente narrare i diversi segnali che preannunciavano il Sessantotto, forse ci saremmo risparmiati la sua degenerazione nelle Brigate Rosse e Nere. Eppure ciò che stava per accadere, ovvero l’avvento di quella che ormai incliniamo a definire la “dittatura del sistema” e la levitante avversione popolare contro la classe politica, era stato lucidamente anticipato da uno dei pochi onesti giornalisti del tempo, Mario Missiroli, con delle parole che oggi appaiono ovvie e che, invece, sono da ritenersi profetiche, perché furono scritte agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso: «È un fatto. I partiti fanno vista di non vedere, di non sentire, ma è fuori discussione che da qualche tempo si va sempre più diffondendo nel Paese un senso di vivissima avversione nei confronti di quella partitocrazia alla quale si fanno risalire tutti i malanni che ci affliggono. Si tratta di un fenomeno grave, perché tale avversione, pienamente giustificata dalla realtà, da quanto accadde sotto i nostri occhi, può risolversi nel discredito della stessa democrazia e coinvolgere, in una sommaria condanna, le idee, i metodi, i principi stessi di quella legittimità all’infuori della quale nessun governo può reggersi».

Purtroppo, all’inascoltato allarme di Mario Missiroli e allo strabismo militante di molti suoi colleghi seguirono 492 uccisioni e 15.000 azioni terroristiche, alcune delle quali entrarono nell’immaginario tragico degli italiani come piazza Fontana, Peteano, la Questura di Milano, piazza della Loggia, San Benedetto Val di Sambro,la stazione di Bologna e via dicendo.

Ma perché accadde tutto questo?  Le ragioni furono tante, ma voler ferocemente sintetizzare possiamo dire che, una volta rallentatasi la corsa al benessere, quella del cosiddetto boom economico, gli italiani, ma i giovani in particolare, sebbene confusamente, incominciarono a rendersi conto di avere consentito la nascita di una nuova tirannide, quella della partitocrazia che, poi, sarebbe evoluta nell’attuale dittatura del sistema. Ciò perché il boom aveva prodotto, sì grandi profitti per le principali famiglie industriali e un discreto e breve benessere per i cittadini, ma non la nascita di una solida cultura amministrativa, non la modernizzazione delle pubbliche strutture, non una politica di sviluppo industriale, non il potenziamento della ricerca scientifica, ma soltanto un marasma politico e sociale, uno spaventoso debito pubblico e l’eliminazione violenta  di molti servitori di uno Stato che da quel momento entrò in crisi di efficienza e di credibilità.

Parliamo di una crisi che tutt’ora dura e che, anzi, in questi ultimi anni è giunta molto vicina al punto di non ritorno, oltre il quale v’è la polverizzazione della nostra democrazia. L’informazione sta facendo, stavolta pericolosamente, quello che ha sempre fatto e cioè schierarsi per buona parte con la parte ritenuta vincente – in altre parole quella che può distribuire incarichi e laute prebende – dando inizio a una rappresentazione che ormai viene replicata tutti i giorni, ovvero la ripartizione della politica italiana tra buoni e cattivi, tra democratici e antidemocratici. Il paradosso è che sono proprio i cosiddetti democratici ad indulgere col terrorismo fisico e psicologico contro gli avversari politici mentre, sotto sotto, cova la loro voglia di ritornare ai manifesti-appelli del recente passato, alle liste nere nelle quali segnare i nemici della democrazia, del loro concetto di democrazia

A proposito di tali metodi che non esitiamo neppure un po’ a definire fascio comunisti, andrebbe ricordato il manifesto – appello rivolto soprattutto contro il commissario di Polizia Luigi Calabresi additato al pubblico ludibrio da giornalisti, scrittori, uomini di cultura e di spettacolo perché ritenuto, a torto peraltro, uno dei responsabili della morte dell’anarchico Pinelli avvenuta nella questura di Milano nel 1971. Ebbene, furono ben 757 i firmatari di quel processo-appello che condannò sui giornali il povero Calabresi il quale, puntualmente, l’anno dopo quell’infame e vile iniziativa fu “giustiziato” dai terroristi di Lotta Continua, una formazione della sinistra extraparlamentare. Ovviamente nessuno dei firmatari, tranne qualche persona intellettualmente onesta come Norberto Bobbio, si riconobbe come il mandante putativo di quell’assassinio.

Siccome il lupo perde il pelo ma non il vizio, alcuni di quei giornalisti e uomini di cultura, benché anziani e col catetere, sono ancora a distribuire patenti ai democratici e agli antidemocratici che oggi, però, essi chiamano sovranisti e non come, in realtà, dovrebbero chiamarli: i ribelli contro la dittatura del sistema.

E v’indugiano con la stessa, voluttuosa rozzezza di quegli anni di piombo, come se non vedessero l’ora di ritrovarsi con un altro morto “cattivo” tra i piedi per poter giustificare un’ammucchiata politica e chiamarla magari governo di salvezza nazionale. Questa nostra è, ovviamente, un’ipotesi o, se preferite, l’inconscio tendere della Sinistra italiana verso quel governo dei “tutti dentro” con il quale nel 1976 il terzo governo Andreotti si assicurò l’astensione costruttiva (e ben pagata in termini di spartizioni) dei partiti del cosiddetto arco costituzionale e di tutti gli organi d’informazione ad essi sodali. Come poi sia andata a finire con la commistione tra politica e informazione – e magistratura, non dimentichiamolo – è sotto gli occhi di qualsiasi persona fuori dagli schieramenti politici. I media ci hanno fatto sapere più niente del figlio di Beppe Grillo accusato di stupro? E delle mascherine fantasma di Zingaretti? E di Bibbiano? Però dieci giorni prima delle elezioni comunicano urbi et orbi che la Procura di Milano ha indagato due commercialisti vicini alla Lega di Salvini.

E poi ve lo immaginate un governo con dentro tutti i quattordici partiti sedenti attualmente in Parlamento? Sarebbe l’atto di morte ufficiale della democrazia italiana, e a firmarlo non sarebbe stato l’Ufficiale dello stato civile ma l’informazione che, del tutto dimentica del suo importante ruolo sociale, ormai non fa più neppure finta di avere una posizione terza rispetto alla narrazione della politica.

Attenzione a gridare “Al lupo – Al lupo” anche quando il lupo non c‘è perché di cervelli bacati in giro ce ne sono tanti, troppi, e prima o poi qualcuno di essi potrebbe sentirsi legittimato a far fuori il lupo: non osiamo neppure immaginare che cosa sarebbe accaduto se l’esaltata congolese di Pontassieve fosse stata armata di coltello.