La sinistra massimalista, i renitenti alla leva

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Si dicono portatori dei valori della Resistenza ma non vogliono che il governo aiuti gli ucraini a resistere all’invasore russo; parlano di voler fermare la guerra e non sanno come; se i russi bombardano gli ospedali sono pronti a sostenere che i morti e i feriti estratti dalle macerie erano comparse; se a Bucha, a Kiev e a Mariupol vengono mostrati i corpi dei civili eliminati con un colpo alla nuca si dicono certi che sia una messinscena propagandistica. La verità è che la sinistra massimalista, anche in declinazione Cinque Stelle, è stata sempre vivaio di disertori di ogni causa della libertà tesa a difendere i valori delle democrazie occidentali

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Eravamo nel 1943 quando Mussolini fece censurare una ditta perugina che produceva lana autarchica ricavata dal pelo del coniglio di Angora. La censura fu provocata dalla réclame, non proprio volpina, con la quale la ditta intese spingere il prodotto sul mercato: “La lana di coniglio è la lana degli italiani”. Ebbene, dopo ottant’anni da quell’accadimento, mentre gli ucraini combattono valorosamente per la propria libertà, siamo a domandarci di che pelo, pardon, di che stoffa siamo fatti noi italiani riguardo a valori come democrazia e libertà, e se eventualmente saremmo disposti a batterci per esse. Ma cerchiamo di arrivarci per gradi.

Nel 1949, pur avendo capacità di deterrenza uguale a zero, fummo accettati nell’Alleanza atlantica perché gli Usa avevano urgente bisogno di basi militari al centro del Mediterraneo. Quella acritica accettazione della nostra alleanza ci impedì, purtroppo, di fare almeno una minima revisione dello strumento militare. Ciò – almeno questa fu la scusa – per la ragione di sempre: non avevamo soldi! Sicché, per somigliare almeno a una parodia di esercito moderno, dovemmo ricorrere ai fondi di magazzino inglesi ed americani e, così, quello nostro rimase un dispositivo militare da esercito stanziale i cui uomini, mal preparati e malpagati, furono impiegati prevalentemente per il servizio di vigilanza alle infrastrutture militari, sotto la guida di ufficiali ridotti al ruolo di burocrati.

Ma davvero furono tutti burocrati i nostri ufficiali? Assolutamente no (chi scrive ne ha fatto parte…), anche se agli albori del Sessantotto appariva evidente che essi non erano professionalmente attrezzati per riuscire a cogliere i segnali premonitori di ciò che si stava apparecchiando nel mondo e in Italia, dove erano in discussione tutti i valori sui quali, bene o male, si era retta la società occidentale fino ad allora, valori portanti, soprattutto quelli militari. Si trattò di un periodo in cui i giovani, molto ideologizzati, portarono nelle nostre caserme lo spirito contestatario delle lotte operaie e studentesche, e non perché rifiutassero l’istituto del servizio militare ma perché, molto prima dei politici e degli Stati maggiori, avevano colto un assurdo: vivendo spesso in caserme ex austriache e borboniche, alcune anche prive di riscaldamento, un’organizzazione militare che utilizzava materiali e armamenti di scarto provenienti dai depositi della Seconda Guerra Mondiale pretendeva di addestrarli per la Terza Guerra Mondiale.

Nacque così il “Movimento dei soldati democratici” che, però, non fece molta presa tra i militari di leva, nonostante l’impegno profuso dalla Sinistra estrema. Il perché era spiegabile: i figli del benessere non potevano che essere renitenti alla leva politica perché, pur amando intrupparsi in marce di protesta o esibirsi in concioni contro lo “Stato totale”, non pensavano di abbatterlo realmente, dal momento che anche i più sprovveduti tra essi avevano compreso che lo Stato liberale, la società di massa e il diffuso benessere erano inscindibili. Da parte sua la Sinistra italiana, sobillando i militari di leva per farne i guastatori del sistema di potere, che a parole avversava, stava perpetrando l’ennesima truffa ideologica perché nessun partito richiamantisi al marxismo poteva ragionevolmente pensare di fare la rivoluzione lasciando intatta la struttura borghese dello Stato.

Ma poi, perché la Sinistra avrebbe dovuto volere realmente la rovina dello Stato capitalista se esso, scaricandone i costi sul debito pubblico, tendeva ad appagare le sue richieste populistiche per tener buone le piazze (il terrore dell’allora classe di potere), dilapidando anche le risorse della generazione successiva? Figurarsi se, con una situazione politica del genere, l’Italia poteva adottare una coraggiosa e progressiva politica di difesa in previsione del fatto che i maggiori azionisti della Nato, gli americani, non ci avrebbero fatto per sempre da costoso ombrello atomico. Ma una tale prospettiva non preoccupò nessuno – né militari, né civili – perché la fuga dalle responsabilità della nostra classe dirigente era cominciata molti anni prima.

Nel periodo 1° settembre 1939 – 10 giugno 1940 le fulminee vittorie militari della Germania nazista annichilirono l’Europa libera, ma i più annichiliti di tutti furono i generali italiani che ormai avevano capito di non poter più continuare a disertare, cioè a sottrarsi alle loro responsabilità storiche approssimandosi l’entrata in guerra anche per l’Italia. Eppure, nonostante il Paese fosse a un passo dalla catastrofe, i generali, invece di prodursi in uno scatto di reni e mettere fuori gioco il duce, pur di salvare il Paese e la dinastia Savoia alla quale essi erano molto legati, cercavano una qualsiasi scappatoia che li ponesse in condizione di conservare le posizioni di comando e, allo stesso tempo, di non onorare la cambiale in bianco che avevano rilasciato al fascismo per vent’anni.

Fu per tutte queste ragioni che, quando i tedeschi chiesero che cosa ci occorreva per venir fuori dalla non belligeranza nella quale Mussolini si era pudicamente rifugiato per non fare la figura dell’imboscato, il Comando supremo italiano s’illuse di poter prendere ancora tempo presentando agli alleati tedeschi una richiesta di diciassette milioni di tonnellate di materiali… avete capito bene: chiesero diciassette milioni di tonnellate di materiale per poter entrare in guerra! Quella lista che includeva anche il molibdeno, che non si sa bene a cosa fosse dovuto servire, sarebbe passata alla storia appunto come la lista del molibdeno. Oltre a non possedere forza d’animo e senso della misura, i nostri generali non conoscevano neppure quello del ridicolo, sennò si sarebbero resi conto che, per trasportare diciassette milioni di tonnellate di materiali vari dalla Germania all’Italia, le ferrovie dei due Paesi avrebbero dovuto assicurare – per almeno un anno – un collegamento quotidiano di quarantacinque convogli ferroviari, composti ognuno da cinquanta vagoni. E questo se l’aviazione inglese se ne fosse rimasta a guardare.

Ma, finita la guerra, in Italia si continuò ad andare avanti così, di fuga in fuga dalle responsabilità, di ruberia in ruberia fino a quando non arrivò la buriana giudiziaria di Mani pulite. Nella circostanza la politica, che aveva perso l’onore in ogni inchiesta, volle recuperare almeno un minimo di consenso tra gli italiani sempre più scettici e distanti, sicché un Parlamento falcidiato dai giudici rispolverò il progetto di abolizione (in realtà la chiamarono “sospensione”) della leva militare.

Nella circostanza ogni politico volle dire la sua sull’abolizione della leva, gareggiando il più delle volte a chi tra loro la sparava più grossa. Essi, infatti, parlavano di un mutamento epocale delle forze armate delle quali, in realtà, non conoscevano niente. Il deputato, l’ex comunista Pietro Folena, quello che secondo Cossiga avrebbe potuto fare soltanto il modello, così salutò la fine della leva: «Quella di oggi è una splendida giornata per la democrazia del nostro Paese. La Camera, approvando la proposta del Governo, da anni sollecitata dai Democratici di sinistra (Ds) – e non era vero perché era sempre stata un pallino della Destra – n.d.a. -, da un lato cancella l’obbligo di leva, ormai anacronistico e classista, e dall’altro accelera il processo di professionalizzazione e di trasformazione delle Forze armate». Il bel Folena, ovviamente, non ritenne necessario spiegare ai suoi elettori e agli italiani di buona memoria, perché per Palmiro Togliatti, padre putativo del suo partito, l’esercito di leva era il solo capace di offrire garanzie democratiche, mentre per lui, di appena una generazione dopo, era invece diventato «… anacronistico e classista».

La verità fu che si trattò di un’altra diserzione: la politica, oltre alla necessità di dover ritrovare un minimo di credibilità, non voleva avere a che fare con i rumorosi “Comitati delle mamme” dei militari di leva che cominciavano a nascere come funghi in quegli anni. Tanto, chi avrebbe osato attaccarci con la Russia ex sovietica ridotta ai minimi termini.  

E invece, puntuale, è venuta l’aggressione russa all’Ucraina e assieme a essa gli stupri, i massacri dei civili, le esecuzioni sommarie, le fosse comuni a Bucha, e distruzioni sistematiche di città come Kiev e Mariupol.

Nella circostanza, almeno per una volta, la Nato e l’Unione Europea si sono mosse pressoché unite nel votare pesanti sanzioni punitive alla Russia. Un po’ meno uniti sono stati i Paesi che ne fanno parte nel decidere il riarmo del loro dispositivo di difesa e sugli aiuti militari e finanziari al legittimo governo ucraino. Il “pressoché unite” sta per l’Italia, dove i Cinque Stelle di Giuseppe Conte e la solita Sinistra massimalista stanno dando il peggio di sé nel riproporre modelli di pacifismo che altro non sono che la l’adesione ai disvalori dell’aggressore e l’abdicazione all’idea stessa del diritto alla difesa di un popolo libero.

Essi, infatti, si dicono portatori dei valori della Resistenza ma non vogliono che il governo aiuti gli ucraini a resistere all’invasore russo; parlano di voler fermare la guerra e non sanno come; se i russi bombardano gli ospedali sono pronti a sostenere che i morti e i feriti estratti dalle macerie erano solo comparse; se a Bucha, a Kiev e a Mariupol vengono mostrati i corpi dei civili eliminati con un colpo alla nuca secondo lo stile sovietico, si dicono certi che sia tutta una messinscena propagandistica. La verità è che la nostra sinistra massimalista, anche quando si presenta in declinazione Cinque Stelle, è stata sempre vivaio di disertori di ogni causa della libertà che veda in prima fila i valori delle democrazie occidentali. E ciò è spiegabilissimo col fatto che essi recano nel proprio Dna la stessa impronta genetica dei vari Putin e Xi Jinping: quella del più bieco comunismo.

Subito dopo vengono quelli che forse sono i peggiori, i quali, pur dichiarandosi anticomunisti, soggiacciono al fascino dell’uomo forte del Cremlino per cui, da un lato vorrebbero ripristinare il servizio militare obbligatorio come la Lega il cui segretario si è prefisso la mission di distruggere il partito, dall’altro vorrebbero l’Italia ferma in mezzo al guado del non interventismo perché, parole loro, le armi che si stanno fornendo alla difesa degli ucraini sono “letali”. Pensate un po’. E d’altronde essi, Salvini e Meloni, sono stati i primi a congratularsi per la vittoria elettorale del loro principale mito dopo l’uomo del Cremino, Viktor Orban, il quale, oltre a quelle loro, ha ricevuto anche le felicitazioni di Putin. Con una sostanziale differenza, però: lui l’aggressione russa all’Ucraina l’ha, alfine, condannata senza gli esitanti balbettii dei sovranisti de noiantri.

Dunque, al momento possiamo concludere affermando che non siamo conigli, come pensava di dover nascondere Mussolini, ma qualcosa di peggio, siamo un gregge impazzito che si ritrova il lupo ex sovietico di fronte e il nemico interno alle spalle. In altre parole, abbiamo a “guidarci” i disertori di sempre, i traditori di ogni lotta che veda contrapposte le ideologie totalitarie ed i valori occidentali.

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