Se quel nefasto giorno di ottantuno anni fa assieme alla percezione dello Stato non si dissolse anche il sentimento di Patria nell’imaginario degli italiani, fu soprattutto grazie ad eroi puri come Salvo D’Acquisto, Alberto La Rocca, Fulvio Sbarretti, Vittorio Marandola, Giuseppe Cordero di Montezemolo, come il popolo di Matera e quello delle quattro giornate di Napoli
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Nonostante le leggi razziali, l’alleanza con la Germania nazista e l’entrata in una guerra assurda e malcondotta, nel 1943 la totale catastrofe del nostro Paese si sarebbe potuta ancora evitare se Vittorio Emanuele avesse tratto un qualche insegnamento dagli errori commessi dalla monarchia in ottant’anni di storia unitaria e avesse capito che, sostituendo il dittatore fascista con un autocrate in divisa, il Generale Pietro Badoglio, alla fine avrebbe decretato la fine dello Stato monarchico. Infatti, l’uscita dal conflitto era un problema politico prima ancora che militare e, pertanto, un armistizio andava negoziato da qualche volpone politico, non certo da Generali che non avevano saputo condurre la guerra (che era il loro mestiere) figuriamoci le trattative per uscirne in modo onorevole.
La scelta, poi, di puntare sulle capacità negoziali di altri due Generali, Giuseppe Castellano e Giacomo Zanussi, aggiunse la farsa alla tragedia incombente, perché agli inizi dell’abboccamento con gli emissari Alleati essi negoziarono l’uno all’insaputa dell’altro. Castellano, in particolare, non parlava l’inglese ed era un arnese da caserma così raffinato che, quando incontrava i suoi interlocutori, complice il diverso idioma, rispondeva al loro distaccato saluto con frasi triviali del tipo «Indè natiche», cioè: andate a prendervela nel culo. Purtroppo, però, in quel posto lo stavano per prendere milioni di italiani!
La conseguenza di questo stato di cose fu la stesura di due armistizi, uno breve e l’altro lungo: a Cassibile Castellano firmò quello breve convinto che fosse l’armistizio lungo che invece avrebbe firmato il Generale Badoglio a Malta il successivo 29 settembre. Figuriamoci con quanto pressapochismo fu sottoscritto un documento che avrebbe condizionato per sempre la storia avvenire del nostro Paese, peraltro senza aver prima denunciato l’alleanza che ancora ci legava alla Germania nazista e dichiararle la guerra, evitando così ai nostri militari, che vi si sarebbero opposti, il pericolo di essere passati per le armi come franchi tiratori. Come poi avvenne, in alcuni casi anche con delle vere ecatombi di militari quali quella della Divisione “Acqui” a Cefalonia.
Ma veniamo alla ricorrenza: nella notte tra l’8 e il 9 settembre del 1943, il capo del governo Badoglio, il re, la famiglia reale e i principali comandanti militari (parliamo di circa 300 Generali…), si misero in macchina e scapparono da Roma per rifugiarsi a Brindisi, sotto la protezione degli eserciti Alleati che stavano risalendo la penisola. I fuggitivi non ebbero nessuna indecisione su ciò che stavano facendo e, senza nessun patema d’animo, abbandonarono 44 milioni di italiani e le forze armate nelle mani dell’invasore tedesco che, assieme ai lacchè fascisti della RSI, ne fecero carne di porco per due anni.
Oddio, bisogna anche dire che, mentre i massimi vertici dello Stato scappavano in direzione della Puglia, la maggior parte degli esponenti dei partiti se ne stette al sicuro in America, in Russia o dentro le mura del Vaticano: misero la testa fuori dai nascondigli soltanto quando sentirono sferragliare i carri armati Alleati. Non a caso un antifascista autentico come l’ex presidente socialista Sandro Pertini poté rinfacciare al compagno di partito Pietro Nenni di essersi nascosto sotto la talare del papa, una cosa «Poco consona con i doveri di un combattente antifascista». Anche se la vulgata resistenziale ha raccontato altro fino ad oggi.
A posteriori i fuggitivi di Brindisi si giustificarono con la necessità di dover assicurare la continuità istituzionale dello Stato monarchico, e invece la fuga dell’8 settembre avrebbe portato proprio alla fine sia dello Stato risorgimentale che della monarchia perché, rimanendo senza guida, le forze armate, che dello Stato erano il simbolo e della monarchia il puntello, come organizzazione verticistica si dissolsero anch’esse in poche ore.
L’8 settembre fu una delle più brutte pagine della monarchia sabauda e dello Stato Maggiore italiano. E, se in quei brutti frangenti non si dissolse del tutto il sentimento di Patria nell’animo degli italiani, fu grazie all’esempio fornito da eroi puri come, per citarne alcuni: Salvo D’Acquisto, Alberto La Rocca, Fulvio Sbarretti, Vittorio Marandola, Giuseppe Cordero di Montezemolo, del popolo di Matera e delle quattro giornate di Napoli che guarda caso furono rivolte popolari spontanee. Non certo per coloro che prima mettevano le bombe e poi, invece di consegnarsi, lasciavano che i nazifascisti se la prendessero con gli innocenti.
Qualcuno si starà domandando, se ne pensiamo così male, se disprezziamo così tanto i suoi protagonisti, perché abbiamo voluto ricordare l’ottantunesimo anniversario dell’8 settembre 1943? Perché è soltanto ricordando con cruda sincerità i nostri errori passati (e che errori!) che possiamo sperare di non replicarli in futuro e sopratutto al presente dove, purtroppo, ogni giorno lo Stato fa una fuga all’indietro: oggi puoi prendere a mazzate un Carabiniere, puoi assalire un Pronto Soccorso, puoi malmenare un professore e lo Stato non c’è a proteggerli. E dov’è andato a finire? Chiedetelo alla politica. Chiedetelo alla magistratura. Chiedetelo a chi ha responsabilità di comando. Ma non sperate che vi rispondano.
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