Non difendere le identità nazionali è vocazione al suicidio assistito

Share
I politici italiani cosiddetti progressisti continuano a guardare con sospetto a quell’identità culturale bimillenaria che ci distingue come popolo e come nazione, preferendo dedicarsi alla pulizia etnica della storia come rito di riparazione per le sue devianze, senza neppure tentare una qualche sintesi con le sopraggiungenti culture, men che mai preoccuparsi di tracciare le fondamenta sulle quali le prossime generazioni potrebbero edificare una rinnovata civiltà italiana ed europea che, pur affondando le radici nel passato, sia culturalmente attrezzata per guardare in avanti

****

Dopo quasi due anni di sconclusionata gestione della pandemia e mentre altre varianti virali stanno mettendo di nuovo in ginocchio il Paese, se provassimo ad azzardare previsioni ottimistiche per il 2022 le persone mediamente assennate avrebbero molte ragioni per mandarci a quel paese. Ma noi ci alziamo ancora al mattino per costruire “qualcosa” e, perciò, abbiamo scelto di aprire l’anno nuovo con la realistica, ma anche pacata, analisi di un problema che, imbrodandosi con il rinfocolamento della pandemia, lo connoterà negativamente: l’immigrazione, come dire il problema meno affrontato organicamente dalla politica. E per introdurre un tale argomento non partiremo dalle dichiarazioni di “sovranisti” tipo Giorgia Meloni e Matteo Salvini, ma dal pensiero di un santo che la maggior parte di noi – anche non cattolici – ha avuto modo di apprezzare.

Il 3 giugno del 1979, papa Giovanni Paolo II si recò in Polonia dove, nella città di Gniezno, fece un discorso che secondo noi può considerarsi il grimaldello che avrebbe scardinato la “cortina di ferro”, demolito il muro di Berlino e messo dei paletti a quell’avanzante globalizzazione salutata dalla politica come la panacea di tutti i mali dei nazionalismi novecenteschi: «La cultura [e quindi l’identità – n.d.r.] è soprattutto un bene comune […] Essa ci distingue come Nazione. Essa decide di noi lungo tutto il corso della storia, decide più ancora della forza materiale. Anzi, più ancora che le frontiere politiche». Ovviamente, quel grande papa non intese propugnare l’idea che non dovessero esserci più frontiere o identità nazionali ma semplicemente che queste non potevano essere imposte agli interessati con un semplice tratto di penna come era stata fatto a Yalta nel 1945.

Eppure, nessun uomo di Stato, nessuno dei tanti analisti politici che allora andavano per la maggiore, forse neppure lo stesso Giovanni Paolo, quel mese di giugno del 1979 riuscì a prevedere che, nel giro di appena un decennio, l’impero sovietico sarebbe imploso e che si sarebbero creati nuovi ma incerti equilibri mondiali, incerti perché privi di quei centri decisionali che fino ad allora erano stati, nel bene e nel male, Washington e Mosca. Purtroppo, in quel particolare momento storico noi italiani eravamo troppo impegnati a satollarci nel trogolo del debito pubblico e della catastrofica politica economica dei governi precedenti a Mani Pulite, per soffermarci sul fatto che, in quanto al centro del Mediterraneo, una volta dissoltisi i vecchi equilibri geopolitici saremmo stati sommersi dagli straripamenti di popoli senza più blocchi ideologici e/o territoriali e, soprattutto, senza più controlli alle frontiere, specialmente dopo la più riuscita delle operazioni di autocastrazione dell’identità nazionale che l’Europa ricordi: gli accordi di Schengen.

Sicché, evento prevedibile ma anche impreveduto, il 7 marzo del 1991 nel porto di Brindisi arrivarono dalle coste albanesi le prime carrette del mare con 27.000 profughi a bordo, come dire un terzo della popolazione brindisina. L’avvenimento ci trovò fatalmente  impreparati ma, invece d’interrogarci sul significato e sulle conseguenze di quel primo arrivo dall’Est Europeo, la Sinistra allora al potere preferì scaricarne la colpa sulle televisioni di Berlusconi perché sarebbero state le sue rutilanti emittenti a trasmettere oltre Adriatico l’immagine di un’Italia terra del latte e del miele e non, invece, l’insipienza della nostra politica estera verso un Paese che, almeno all’epoca, non chiedeva di meglio che diventare un nostro pacifico “protettorato” economico.

Insomma neppure un evento così foriero di conseguenze indusse la classe politica italiana, ed anche europea, ad accantonare le beghe da cortile per interrogarsi sul futuro, su ciò che sarebbe accaduto da quel 7 marzo brindisino in poi. Peraltro, quella stessa Sinistra che trent’anni fa accusava Berlusconi di portarci i clandestini in casa con le sue televisioni, oggi è lei a volerceli portare di forza, in compagnia dell’attuale papa, di Carola Rackete la miliardaria annoiata, di Luca Casarini il disobbediente che ubbidisce soltanto alla Sinistra e, come poteva mancare, in compagnia dell’ex magistrato Gherardo Colombo.

Sicché, mentre prendeva rapidamente corpo lo tsunami delle disordinate migrazioni soprattutto dall’Africa, trascurammo l’avvertimento che ci venne da un leader africano, il presidente del Sénégal Abdou Diouf: «Rischiate di essere invasi prestissimo da moltitudini di africani che spinti dalla miseria si rovesceranno a ondate sui paesi del Nord. E non vi servirà a nulla creare delle disposizioni di legge contro l’emigrazione, non riuscirete ad arrestare questa valanga come non è possibile arrestare il mare con le braccia. Il Mediterraneo non li potrà fermare. Sarà un fenomeno simile a quello delle orde barbariche che hanno invaso l’Europa durante il Medioevo».

Eppure, nonostante quel grido di allarme l’Italia e l’Europa hanno continuato a procedere in ordine sparso tanto che sul tema perfino la posizione della Chiesa di Bergoglio non è stata univoca, perché mentre il papa si faceva fautore di un’accoglienza fine a se stessa, il presidente della Conferenza episcopale congolese, il vescovo di Tshumbe monsignor Nicolas Djomo, metteva in guardia i giovani africani sulle conseguenze che avrebbe avuta la  loro fuga verso l’Europa assumendo, a nostro avviso, una posizione più lungimirante e realistica di quella del papa che pure, dicono, è ispirato dalla Divina Provvidenza: «Guardatevi dagli inganni delle nuove forme di distruzione della cultura della vita, dei valori morali e spirituali. Utilizzate i vostri talenti, e le altre risorse a vostra disposizione per rinnovare e trasformare il nostro continente e per la promozione della giustizia, della pace e della riconciliazione durature in Africa. Voi siete il tesoro dell’Africa. La Chiesa conta su di voi, il vostro continente ha bisogno di voi».

Come dire che i disordinati flussi migratori che noi e l’Ue stiamo calamitando faranno impoverire ancora di più quei Paesi africani che, a parole e magari anche con buone intenzioni, vorremmo risollevare dalla miseria, tanto che l’Unione europea continua a sfornare faraonici programmi economici per l’Africa mentre, di fatto, sta agevolando la fuga dei suoi figli.

Purtroppo, gli ultimi governi italiani, l’Unione europea e anche la stessa Chiesa hanno già dimenticato una parte del discorso di San Giovanni Paolo II a Gniezno: «La cultura è soprattutto un bene comune […] Essa ci distingue come Nazione». Infatti, i politici italiani cosiddetti progressisti continuano a guardare con cupo sospetto all’identità culturale bimillenaria che ci distingue come entità nazionale, preferendo dedicarsi alla pulizia etnica della storia come rito di riparazione per alcune sue devianze, senza neppure tentare una qualche sintesi con le sopravvenienti culture, men che mai preoccuparsi di almeno tracciare le fondamenta sulle quali le prossime generazioni possano edificare una rinnovata identità italiana ed europea che, pur affondando le radici nel passato, sia culturalmente attrezzata per guardare in avanti.

Questo è ciò che hanno fatto gli Usa nel corso della loro pur tormentata storia e che noi citiamo spesso, quasi sempre a sproposito, quando vogliamo parlare di rapporti multirazziali, dimenticando che gli americani pur non essendo un popolo omogeneo, sono una nazione orgogliosa di esserlo, mentre l’Italia della Sinistra si vergogna della sua antica civiltà. E non è una differenza da poco!

Ciò perché i nostri governanti, che quasi mai riescono a vedere quel che succede perfino sotto il loro naso, non hanno tratto nessun utile apprendimento non diciamo dalla storia d’Europa che non conoscono, ma almeno dai referendum indipendentisti in Scozia, dove i fautori del go out sono stati battuti, per ben due volte, dai fautori del Regno Unito, e da quello più recente avvenuto in Catalogna, dove gli indipendentisti alla fine risultarono essere soltanto il 48% dei catalani. Come dire che i popoli dell’Unione europea, anche quelli che sono europeisti convinti, sentono molto forte la loro identità culturale e nazional le quali non collidono affatto con l’idea di un super Stato federale europeo.

Pertanto, attenzione a mortificare l’identità nazionale dei popoli perché essa è come un grande corso d’acqua che può arricchirsi col contributo di altri ruscelli, che può perfino frammischiarsi con altri fiumi e uscirne alla fine rinvigorito, ma è follia cercare di nasconderlo, d’incanalarlo sotto terra come sta facendo l’Italia perché, primo a poi, quel fiume irromperà disastrosamente in superfice e trascinerà via tutto ciò che incontrerà sulla sua strada.

Poi non diamo la colpa ai cosiddetti sovranisti se questi cercheranno d’incanalare alla loro maniera quel fiume inarrestabile.

Potrebbe interessarti anche I nostri protagonisti dell’anno: i militari di Solbiate Olona