La coppa del mondo dei fighettoni

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La maggior parte dei calciatori di oggi sono i degni ingaggiati di società che con i loro folli acquisti hanno ucciso i vivai calcistici e raschiato la patina popolare che il calcio aveva, facendone unicamente una movimentazione di pacchetti azionari

– Enzo Ciaraffa –

La mia conoscenza del calcio è tale che a stento riesco a compenetrare la differenza di ruolo intercorrente tra il portiere e l’arbitro. Tuttavia, nonostante questo limite, sono riuscito per un certo periodo a seguire la mia squadra del cuore e la Nazionale. D’altronde ad uno come me che non ci capisce un fico secco di calcio, in un Paese che ha sempre vantato il più grande numero di esperti in fatto di calcio, praticamente tutti gli altri 60 milioni di italiani, occorreva poco: quando la palla entrava nella porta avversaria urlavo come un ossesso, e quando invece erano gli altri a bucare il nostro portiere inveivo come un carrettiere napoletano d’anteguerra.

Ricordo che quella domenica dell’11 luglio 1982, quando la nostra Nazionale sconfisse l’undici della Germania Ovest con un perentorio 3-1 e divenne così campione del mondo per la terza volta, ero di servizio al quartier generale di Napoli. Questo, a quel tempo, si trovava in via Caracciolo. Ebbene dopo la partita questa famosa strada napoletana andò

Ezio Pascutti con Harald Nielsen, i due inarrivabili attaccanti del Bologna negli anni Sessanta

riempiendosi di gente allegra e chiassosa che, agitando il tricolore, diresse verso il lungomare. Quella sera la mia contentezza fu così grande che feci esporre la bandiera nazionale sul balcone dell’edificio come fosse una ricorrenza patriottica… e forse nei nostri cuori lo era. Per fortuna gli alti comandi fecero finta di non accorgersi di questa personale iniziativa. Ecco, quella fu l’ultima volta che ebbi la sensazione che il calcio fosse ancora uno sport fatto di preparazione atletica, di fatica, di sacrifici, di sudore, di tifo ruspante e soprattutto di orgoglio.

Poi vennero i fighetti nazionali e gli stranieri superpagati, quelli che se perdono una partita si mettono a piangere invece di trar fuori gli attributi, se invece vincono non pensano all’orgoglio dei tifosi ma alla prossima velina che potranno portarsi a letto grazie alla loro notorietà. Insomma, sono i degni ingaggiati di società che hanno ucciso i vivai calcistici e raschiato la patina popolare che aveva il calcio, facendone di fatto una movimentazione di pacchetti azionari.

Nel 1952 il padre padrone della squadra del Napoli, Achille Lauro, ingaggiò il fortissimo attaccante svedese Hasse Jeppson per la cifra allora mostruosa di centocinque milioni di lire. Per tale ragione, quando Jeppson cadeva a terra durante le partite, i tifosi partenopei gridavano «Gesù, è caduto ‘o Banco ‘e Napule!». Però non fecero mai mancare il sostegno a quel gigante nordico col viso sempre coperto di polvere e di sudore.

Ezio Pascutti in attacco

Il 13 ottobre del 1963 la Nazionale italiana incontrò quella sovietica allo stadio “Lenin” di Mosca e, nel corso di quella partita, il nostro Ezio Pascutti rifilò un cazzotto al difensore russo Dubinski che lo aveva quasi azzoppato. Pascutti fu ovviamente espulso e l’Italia perse pure la partita.

Ricordo che al fischio finale dell’arbitro eravamo tutti un po’ delusi per il risultato, ma non depressi. Le lacrimucce pubbliche all’epoca non usavano, anzi eravamo pure un tantino soddisfatti: «Ha fatto bene Pascutti a stendere quel fetente di Dubinski». In realtà sbagliavamo ad essere così indulgenti, ed aveva sbagliato anche il nostro attaccante a perdere le staffe, ma che volete farci, all’epoca gli atleti riuscivano a farsi amare anche quando sbagliavano. Ciò perché i loro errori avevano l’acre odore del sudore ed i loro visi sporchi e segnati erano la maschera perfetta degli uomini veri.

Sarà che non v’era la nostra Nazionale ad accelerarmi i battiti del cuore, sarà che ormai vivo di amarcord, ma a “Russia 2018” non ho visto niente di tutto questo.