Invece del 6 in condotta leggiamo agli studenti la lettera di un loro coetaneo dalla Somalia

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Nonostante fosse appena uscito da una brutta broncopolmonite, Fabrizio Longobardi, l’ultimo dell’anno del 1992, dopo aver brigato per farsi riconoscere idoneo al servizio, lasciò la mamma da sola per correre a imbarcarsi col suo plotone sul primo cargo militare in partenza per la Somalia, dove in località dai nomi mai sentiti prima come Giohar, Buloburti  e Gerolassi, bimbi con la pancia gonfia avevano  bisogno anche del suo aiuto per cercare di diventare grandi

– Enzo Ciaraffa –

Quest’anno si sono concentrate, in breve tempo, vicende che hanno avuto come protagonisti negativi dei ragazzi e, perciò, sembrerebbe che nel Paese la grande malata sia la gioventù. In realtà, a essere malato è il nostro sistema di valori perché pessimamente rappresentato dalla classe politica e dirigente: i giovani senza freni sono soltanto la spia rossa che si è accesa perché tale sistema sta oggi andando verso il default per un’infinità di ragioni che non è possibile sviscerare in un articolo. Per fortuna, in Italia vivono anche giovani dei quali dovremmo andare orgogliosi ma, purtroppo, a far notizia sono sempre coloro che nella loro fascia di età si rendono responsabili di azioni riprovevoli. Ebbene, nel corso della mia carriera militare ho avuto a che fare con giovani che, per la maggior parte, mi hanno reso orgoglioso di essere italiano. Ma procediamo per gradi.

Ho personalmente conosciuto il Colonnello, e poi Generale, Francesco Paolo Spagnuolo quando era Sottocapo di Stato Maggiore operativo del Comando della Regione Militare Meridionale a Napoli e, in veste di eccellente Comandante del Reggimento “Cavalleggeri Guide”, a Salerno. La vicenda del militare di leva, la Guida Fabrizio Longobardi, che sto per raccontare, è connessa con la storia di quel Reparto e l’appresi, per la prima volta, direttamente dal suo Comandante, l’allora Colonnello Spagnuolo appunto. Successivamente, conobbi anche il protagonista della vicenda, il ragioniere Fabrizio Longobardi, che durante il nostro incontro in quel di Palazzo Salerno a Napoli mi fece dono di una copia della lettera riportata in copertina, autorizzandomi eventualmente a pubblicarla, e di una scatolina contenente una manciata di sabbia rossa della Somalia.

Partiamo dalla lettera che Fabrizio scrisse al suo Comandante, poche righe capaci di spiegare meglio di mille libri come sono fatti i giovani italiani se inseriti in un contesto di valori intatti, chiari e bene incarnati. Infatti, la prima cosa che mi colpì della lettera fu il fatto che il giovane soldato – ed eravamo nel pieno di quel disastro morale che fu Tangentopoli! – scrisse per ben due volte la parola Patria in lettere maiuscole. Ma giudicate voi anche il resto della missiva:

«Egregio signor Colonnello, eccoci qui, già un po’ impegnati per fronteggiare l’emergenza Somalia. Eppure, se torno col pensiero a qualche mese fa, mai avrei creduto di partecipare a una simile missione, né tantomeno quando intrapresi il corso A.U.C. [Allievo Ufficiale di Complemento – N.d.a.] chissà, forse era già segnato nel mio destino, come era segnato che non dovevo superare il corso, ma comunque sono contento così: quel destino burlone, che si era presentato così avverso e imprevisto allora, mi ha offerto adesso la possibilità di riscattarmi, facendo rivalere me stesso. Sono orgoglioso della mia partecipazione a questa missione, un giorno sarà per me un ricordo unico e meraviglioso della mia vita di giovane militare. E poi quel che mi rimane è l’esperienza! Esperienza soprattutto umana, che mi ha dato anche la possibilità di visitare un paese così lontano, e per di più non come un turista civile qualsiasi, ma come milite: mi sono reso conto quindi come ci si muove in terreno operativo; ho visto che a logistica siamo veramente ben attrezzati: a noi italiani l’Esercito non fa mancare nulla neppure a 11.000 Km. che ci separano dalla PATRIA! Tutto questo che sto vivendo adesso costituisce per me un bagaglio di ricchezza morale. Così sono tutto teso ad imprimerlo nella mia mente, attimo per attimo, perché forte mi possa restare nel ricordo di questa breve parentesi della mia vita, arricchendomi nella mente e nello spirito, dandomi saggezza ma, soprattutto, facendomi diventare uomo. Venendo qui ho imparato veramente ad apprezzare più che mai il mio paese, la Patria! Così si stimano i vantaggi che derivano dal vivere in una società civile dove, non mancandoci nulla, circondati nel nostro ghetto da ogni comfort, ignoriamo che talvolta possono esistere altre soluzioni di vita per altri che, malauguratamente, sono nati più disgraziati di noi. Così, mentre la sto scrivendo, sto ascoltando Radio Ibis, dal nome dell’operazione cui siamo impegnati che, facendoci qui compagnia notte e giorno, sta suonando una canzone molto dolce degli anni ’60 americana dedicandola a tutti coloro che in questo momento ci stanno pensando. Magari chissà, forse c’è anche Lei! Adesso la saluto, a presto, comandi». 

Mentre la sabbia, mulinata dalle ruote della Campagnola gli staffila il viso sudato e la tuta gli si è appiccicata addosso, Fabrizio Longobardi, abbozzando un sorriso silenzioso, cerca di ricordare se quando scrisse quelle cose al Colonnello Spagnuolo non avesse, per caso, il capo scoperto: il sole della Somalia a volte fa brutti scherzi!

Costruita negli anni Trenta dagli italiani, la rotabile, sulla quale la Campagnola e altri mezzi procedevano a protezione di un convoglio umanitario, non aveva neppure le sembianze dell’antico sogno imperiale fascista, perché la mutevolezza del deserto e l’incuria l’avevano ridotta quasi a un sentiero per cammelli battuto dalle tempeste di sabbia. Già, la sabbia della Somalia è la prima nemica di un esercito moderno e, pertanto, merita una descrizione a parte: rossa, impalpabile e leggera come la farina, si solleva a ogni più piccolo alito di vento, penetrando nei polmoni, nei carburatori degli automezzi, nei meccanismi automatici delle armi, nei congegni elettronici degli apparati e finanche nelle parti intime. I convogli umanitari, che nel corso dell’operazione “Ibis” si arrischiavano su quella tratta, dovevano essere scortati per evitare che fossero depredati dalle bande armate di qualche caperonzolo locale, che una raffica di mitragliatrice o un razzo di bazooka non lo negavano a nessuno. Ma come ci era arrivato Fabrizio in quel posto?

Quando si profilò l’eventualità che il Reggimento Guide di Salerno potesse essere inviato in missione in Somalia, dove si sparava e si moriva con una certa frequenza stando ai telegiornali del tempo, la signora Longobardi, la mamma vedova di Fabrizio, non ebbe più pace. Fece, perciò, salti di gioia quando, a inizio dicembre del 1992, una broncopolmonite mise a letto il figlio… il Reggimento sarebbe partito senza di lui! Ma le cose non andarono come sperava la signora Longobardi perché l’ammalato ingurgitò, con insolita diligenza, tutte le medicine prescrittegli e arrivò addirittura a chiedere al medico di famiglia la prescrizione di iniezioni in modo che la guarigione potesse essere più rapida. Eppure l’ultima volta che avevano tentato di fargliene una, la siringaia dovette inseguirlo per tutta la casa mentre, chiappe scoperte all’aria, si dimenava come un ossesso.

Sicché, appena si sentì meglio Fabrizio salutò la mamma e rientrò al Reggimento, dove fece di tutto per essere dichiarato subito idoneo al servizio dall’Ufficiale Medico. Ottenuto lo scopo, il 31 dicembre del 1992 (l’ultimo dell’anno!) riunì il suo equipaggiamento e si portò velocemente a Livorno da dove, il successivo 2 gennaio 1993, riuscì a imbarcarsi col suo plotone sul cargo militare in partenza per la Somalia. Appena arrivato a Balad, la prima cosa che colpì Fabrizio fu l’estrema sporcizia e il paesaggio esasperatamente arido: nel giro di qualche giorno, si sarebbe reso conto che, a casa sua, tutte le volte che tirava la catena dello sciacquone del water, utilizzava una quantità d’acqua pari a quella che in alcune zone della Somalia avrebbe dissetato una famiglia per un giorno.

Qualche mese dopo il suo arrivo in terra d’Africa, il soldato Longobardi, mentre arrostisce su di una Campagnola in autocolonna, seguita a pensare a queste e altre cose, ma l’avvicinarsi di alcuni uomini, sbucati improvvisamente da dietro una duna, lo riporta al presente. Toglie la sicura al fucile e aguzza la vista perché da qualche parte, in posti chiamati Joohar, Bulo Burti e Gerolassi, bimbi con la pancia gonfia a causa della malnutrizione acuta hanno estremamente bisogno delle derrate alimentari e dei medicinali che scorta. Questa di Fabrizio sembra una storia tratta dal libro “Cuore” e invece è realmente accaduta appena trent’anni fa, cioè ieri. Facciamo imparare, a memoria, la sua lettera agli studenti di Rovigo che hanno sparato alla professoressa con una pistola a pallini; condanniamo gli adolescenti violenti che di notte, e senza ragione, vanno a malmenare i clochard, ad ascoltarne la lettura per ventiquattrore filate ogni giorno e per un anno; incolliamo la lettera sulla schiena degli eco-imbecilli che vorrebbero salvare il mondo uccidendone gli afflati artistici; facciamola leggere a quei genitori che dei figli, eccetto il nome e l’età, non sanno niente; affiggiamola sul portone del Parlamento affinché i nostri politici – perfino loro! – possano apprendere dalla lettera di un ragazzo che aveva solo vent’anni quando la scrisse, i doveri in capo a ognuno di noi nei confronti del Paese e dell’intera umanità.

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