Quando, dopo un mese di fughe e di traccheggiamenti, il governo Badoglio si decise a dichiarare guerra alla Germania il 13 ottobre del 1943, i tedeschi avevano già fatto prigionieri non meno di 700.000 militari italiani, dei quali oltre 600.000 rifiutarono ogni collaborazione con la Repubblica di Salò e, men che mai, con il terzo Reich che, per vendicarsi, attribuì loro non la qualifica di prigionieri di guerra, ma di Imi – Internati militari italiani, allo scopo di sottrarli alle tutele previste dalla Convenzione di Ginevra e farne dei lavoratori in condizioni sub umane
– Enzo Ciaraffa –
Il Giorno della Memoria è diventato una ricorrenza che si celebra ogni anno, il 27 gennaio, per commemorare le vittime dell’olocausto. In sede Onu si convenne di scegliere questo giorno per ricordare la più grande infamia del Novecento perpetrata dai nazisti, perché fu appunto quel giorno di gennaio del 1945 che le truppe russe avanzanti in Polonia liberarono il campo di concentramento di Auschwitz, rivelando al mondo l’orrore del genocidio.
Dopo aver fatto questa doverosa introduzione, dopo esserci inchinati al ricordo del grande dolore dei nostri fratelli maggiori (come Giovanni Paolo II definì gli ebrei), dobbiamo sentire il dovere di ricordare con altrettanto raccoglimento e sgomento un altro olocausto, minore nei numeri certamente, ma non per questo da destinare alla discarica della storia. Parlo delle migliaia di militari italiani che, dopo la fuga del re, di Badoglio e di 250/300 generali verso Brindisi, l’8 settembre del 1943, seppero scegliere – loro sì! – la via dei campi di prigionia nazisti piuttosto che quella del disonore.
Era accaduto che, dopo il 25 luglio, giorno della caduta del regime fascista, uno dei primi provvedimenti che aveva adottato Pietro Badoglio, succeduto a Mussolini, fu il maniacale controllo delle piazze, cosa questa che impedì lo spontaneismo di ogni mobilitazione popolare contro i tedeschi. Il generale Badoglio, in sovrappiù, invece di predisporre l’esercito contro i nazisti, lo schierò contro gli italiani, ordinando ai comandi militari di assumere i pieni poteri nel caso di «Qualunque perturbamento dell’ordine pubblico, anche minimo e di qualsiasi tinta». Siccome non gli sembrava di essere stato abbastanza chiaro, il fuggitivo di Brindisi ingiunse di porre la massima cura nel mostrare «Grinta dura e atteggiamento estremamente risoluto, che aprano il fuoco [i reparti – n.d.a.] a distanza, anche con mortai e artiglieria, senza preavvisi di sorta».
In quelle stesse ore, i nostri comandanti militari dislocati in Italia e all’estero subissavano il governo e il Regio Stato Maggiore Generale con richieste di chiarimenti circa l’atteggiamento da assumere con i tedeschi dopo l’enigmatico «…la guerra continua» del primo proclama di Badoglio, che significava tutto e niente perché non chiariva contro chi la guerra continuava. Ma a Roma nessuno dei capi politici e militari aveva avuto il fegato di dire, chiaro e tondo, all’Esercito e al popolo italiano l’unica cosa che andava detta subito e senza equivoci: «Sparate ai tedeschi invasori!».
E, invece, nonostante l’offerta alleata di truppe aviolanciate e sbarchi di Unità corazzate americane sul litorale laziale allo scopo di mantenere protetti gli aeroporti e i punti strategici di Roma e dintorni, Badoglio non volle difendere la capitale, e le battaglie di resistenza, come quella ingaggiata dai Granatieri di Sardegna contro i tedeschi a Porta San Paolo, si conclusero con l’inevitabile resa. Anche perché la Divisione “Piave”, che si accingeva a dar loro man forte, fu dirottata verso Tivoli per proteggere la fuga del re e di Badoglio. L’unico che si rifiutò di seguire le loro disposizioni fu il comandante della Divisione Ariete, il generale Raffaele Cadorna, che affrontò il III Corpo Corazzato tedesco a Monterosi e a Bracciano, e lo mise fuori combattimento.
L’8 settembre del 1943 il Regio Esercito aveva ancora una buona tenuta disciplinare, una discreta capacità operativa e tanto entusiasmo patriottico ma, come abbiamo visto, invece di mettersi alla testa di milioni di uomini e donne che attendevano impazienti di combattere contro i tedeschi, all’alba del 9 settembre 1943 il re, Badoglio e quasi tutti i generali andarono a mettersi al sicuro presso gli alleati a Brindisi, lasciando senza guida le forze armate e il popolo italiano. Tra l’altro, i fuggitivi non avevano neppure pensato a denunciare il Patto d’Acciaio che ci teneva giuridicamente legati alla Germania e, subito dopo, dichiararle guerra come sarebbe stato logico fare. Sicché, in forza dell’articolo 5 di tale patto, i militari italiani che si opponevano ai nazisti potevano essere considerati franchi tiratori, cioè gente che spara alle spalle degli eserciti regolari e, perciò, passibili di essere passati per le armi come tragicamente avvenne a Corfù e a Lero, e su grande scala con la Divisione Acqui a Cefalonia.
Quando, infine, il governo Badoglio si decise a dichiarare guerra alla Germania il 13 ottobre del 1943, i tedeschi avevano già fatto prigionieri non meno di 700.000 militari italiani, dei quali 600.000 rifiutarono ogni collaborazione con la Repubblica di Salò e, men che mai, con il terzo Reich che, per vendetta, attribuì loro non la qualifica di prigionieri di guerra, ma di Imi – Internati militari italiani, allo scopo di sottrarli alle tutele previste dalla Convenzione di Ginevra e farne dei lavoratori in condizioni sub umane. Riguardo ai numeri mettiamo in guardia chi legge sulla loro precisione, perché i pareri a riguardo sono piuttosto difformi a seconda della fonte consultata, tant’è che lo storico tedesco Gerhard Schreiber fa ascendere addirittura a 800.00 il numero dei militari italiani internati in Germania.
Ciò che accadde in quel triste settembre del 1943 fu vissuto come un grande dramma interiore dai militari, specialmente quelli di medio e di basso grado, i quali si sentivano ancora vincolati dal giuramento di fedeltà alla monarchia. Per quelli che, invece, si trovavano all’estero, optare da quale parte stare dopo l’8 settembre, fu semplice: o schierarsi a fianco degli ex nemici jugoslavi e greci, o lasciarsi catturare dai tedeschi. Ciò perché la lontananza dalla madrepatria non concedeva la possibilità di poter vagliare una terza soluzione, ossia di ritornarsene a casa.
E fu così che iniziò la lunga e dolorosa marcia verso i campi di concentramento tedeschi. I nomi di località come Fullen, Belsen, Schokken, Oldenburg, Benjaminowo, Deblin, Wietzendorf, Sandbostel, che ai più oggi non dicono niente, furono alcune tappe del calvario dei militari italiani che, anche dietro il filo spinato, riuscirono a conservare integre dignità e umanità, nonostante il fatto che, in quei campi, si moriva per poco e che quasi 100.000 di essi non avrebbero più fatto ritorno a casa.
I soldati, che l’irresolutezza del re e di Badoglio aveva consegnato ai tedeschi, combatterono un’altra guerra da dietro il filo spinato, una guerra dalla quale i nazisti non potevano che uscirne perdenti: la guerra per voler vivere da uomini e non da bestie come venivano trattati. Infatti, nei campi di prigionia degli irriducibili italiani nacquero prati fioriti, si edificarono piccole cappelle affrescate con colori ottenuti mischiando mattoni e foglie verdi triturate, si tennero conferenze politiche e si costituirono delle orchestrine per svagarsi con la musica e con le canzoni della Patria lontana. Insomma, per quanto tenuti in condizioni disumane, gli italiani seppero tirar fuori quella vitalità creativa che li fece sopravvivere e divenne il passo d’inizio della democrazia italiana.
Lo scrittore Giovanni Guareschi (internato numero 6865), che nel dopoguerra avrebbe dato vita ai personaggi di Don Camillo e Peppone, nel romanzo Mondo piccolo, prigioniero anche lui in quanto ufficiale di complemento che non aveva voluto aderire alla Repubblica di Salò, realizzò perfino un giornalino umoristico del campo di Wietzendorf, oltre a scrivere racconti per i compagni, come La favola di Natale.
Invece, Giuseppe Lazzati, tenente della Tridentina che diventerà docente della Cattolica di Milano, teneva dei seminari e dei corsi di alfabetizzazione per i suoi compagni di prigionia. Lazzati diventerà uno dei padri costituenti che scrissero la nostra Costituzione. Il tenente musicista Pietro Maggioli, invece, mise in musica la poesia da lui stesso scritta “In memoria dei caduti”.
Sicché, mentre i tedeschi distruggevano l’Europa e la stessa Germania, i nostri militari pensavano già al dopo, a quando sarebbero ritornati in un Paese da ricostruire materialmente e moralmente.
Credo che, a un certo punto, i conti cominciassero a non tornare ai secondini tedeschi, i quali si domandavano se a essere prigionieri del filo spinato non fossero loro, invece che quei cenciosi italiani così fieri della loro irriducibilità e pieni di amore per la vita. Se davvero fu fatta questa considerazione, possiamo esser certi che gli algidi teutonici non riuscirono a spiegarsene la causa che pure era semplice: la vitalità dei prigionieri italiani era di tipo emotivo, nel senso che essa attingeva forza dal loro cuore e non dalla mente, dal sentimento e non dalla ragione. Essi strappavano la vita con i denti perché erano certi che, a guerra finita, la Patria li avrebbe accolti con bandiere e fanfare, additandoli ai giovani come esempio di onore e di fedeltà, cosa che spero di stare a fare io oggi, dopo 78 anni, visto che le cose non andarono come speravano i reduci dai campi nazisti.
Al ritorno in Patria, infatti, si ritrovarono in un mare magnum di solitudine, in balia di affaristi, di camaleonti e di fascisti riciclati, guardati dall’alto in basso. Tutto ciò ha la sua spiegazione in un paradosso poco affrontato nella storia, troppo appiattita sul mito della Resistenza di marca comunista. Invece la lotta di liberazione dalla quale sboccerà la nostra repubblica, nacque militare e monarchica, anche se finì repubblicana, tant’è che il comandante in capo del Corpo Volontari della Libertà, braccio armato della Resistenza, era il generale Raffaele Cadorna.
Sicché, quando i nostri internati militari in Germania ritornarono, trovarono un Paese profondamente diverso da come lo avevano lasciato, che a maggioranza aveva abiurato la monarchia costituendosi in Repubblica il 2 giugno del 1946, una repubblica della quale la loro lealtà e il senso dell’onore costituirono la cattiva coscienza di quelli che si erano semplicemente “riciclati” o che avevano accettato ogni sorta di compromesso col fascismo fino alla sua caduta definitiva.
Concludiamo questa carrellata sugli Internati militari italiani invitando coloro che ci seguono ad inviarci la storia, le immagini oppure i documenti dei loro parenti che furono prigionieri in Germania con quella qualifica: gli daremo tutto lo spazio che meritano sul nostro blog.
Nel frattempo vorremmo esortare il governo a istituire “La giornata dell’internato militare”, affinché negli anni a venire si possa ricordare e additare come esempio alle nuove generazioni, il senso del dovere e dell’onore di quei militari italiani che scelsero la via dei campi di concentramento nazisti pur di non tradire un giuramento, per non diventare gli aguzzini del loro Paese, come purtroppo avevano fatto molti riciclati della politica del dopoguerra, di destra e di sinistra.
(Alcune delle immagini pubblicate sono state tratte dal libro “Tappe di un Calvario” del cappellano militare don Luigi Pasa)
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