Se il cervello diventa un soprammobile è la fine

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La società umana potrà sopravvivere a se stessa se investirà, oltre che sul progresso materiale, sulle infinite risorse dello spirito e degli ideali, come dire su delle spinte emotive impossibili da riprodursi senza la chimica intercorrente tra cuore e cervello. L’intelligenza artificiale, dunque, non riuscirà mai a riprodurre alla lettera quegli stessi valori che hanno sostenuto, per oltre duecentomila anni, l’umanità lungo la via crucis di una vita difficile, dura, imperfetta quanto si vuole, ma reale e che ha ancora molto da raccontare alla storia del mondo

– Enzo Ciaraffa –

Anche se non sempre capisco tutto, sono piuttosto attento quando parla un cervellone come lo era stato la buonanima di Stephen William Hawking: cosmologo, fisico, astrofisico, matematico e divulgatore scientifico, secondo soltanto ad Einstein. E, a proposito dell’intelligenza artificiale, già vent’anni fa Hawking ci mise in guardia contro i pericoli che ne potevano derivare, arrivando a considerarla una minaccia per la sopravvivenza dell’umanità per ragioni che, a mio vedere, sono ovvie e condivisibili: non si può delegare a una figura immateriale l’esercizio di pensare per noi e sperare di avere un qualche ruolo nel suo ordito ideativo!

E già questa costatazione mi mette addosso una cappa di disagio, di dolore e di paura, gli stessi sentimenti che provai quando appresi dal medico che mio padre se ne sarebbe andato lentamente a causa del progredire di un’orrenda malattia. Poi comincio a pormi anche qualche domanda: «Se l’intelligenza umana è quel complesso di facoltà psichiche e mentali che, partendo dalla mente di larva primordiale uscita strisciando dal mare, ci ha portati fin qui mediante l’apprendimento, la riflessione e la comprensione, perché sostituirla con un algoritmo? Perché provo un’istintiva avversione nei suoi confronti?». In un certo qual modo la risposta alla seconda domanda mi è venuta da un bambino di sette anni, mio nipote, al quale, mentre s’industriava per “aiutarmi” a sostituire le lampadine a led delle abat-jour dei comodini, raccomandavo di non toccarle sennò si sarebbe scottato le mani. Questa la sua risposta: «Nonno, ma sono fredde!».

Ecco, per quanto mi è dato di comprendere, quella artificiale è una tecnologia altrettanto fredda, un’intelligenza extracorporea sì capace di ragionamento, di apprendimento e di pianificazione, ma come la mettiamo con le emozioni, con i sentimenti e con i multiformi trasalimenti del cuore… si sostituirà anche a quelli? Se, per esempio, uno sfaticato intellettuale le fornisse con due clic sulla tastiera del computer il nome della città di Recanati e del Monte Tabor, l’intelligenza artificiale sarebbe capace di restituirgli una poesia che rassomigli vagamente a L’Infinito? «Così tra questa/immensità s’annega il pensier mio/e il naufragar m’è dolce in questo mare». Un algoritmo privo di anima sarebbe in grado d’immaginare un pensiero del genere mancandogli la chimica delle emozioni individuali? Credo proprio di no, e la riprova è nel fatto che di Giacomo Leopardi non si è avuto fino a oggi nessuna fedele replica.

Sebbene io sia andato poco oltre le abilità funzionali del Pithecanthropus erectus, non sono così sprovveduto da ritenere che quello dell’intelligenza artificiale sia un problema che si possa utilmente sviscerare con qualche migliaio di battute (e probabilmente neppure con un milione di battute), però posso inquadrarlo e sentirlo con la mia di chimica individuale, grazie alla quale sono portato a pensare che nessuna intelligenza che trascenda dai sentimenti potrà distinguere il male dal bene, tantomeno il giusto dall’ingiusto; come nessuna intelligenza meccanica sarà capace di sentire l’odio o l’amore e tutti quei dubbi metafisici che sono esclusiva e irripetibile  facoltà della mente umana per le ragioni di cui sopra.

Sicché la società umana potrà sopravvivere a se stessa soltanto se investirà, oltre che sul progresso materiale, sulle infinite risorse dello spirito e degli ideali, come dire su delle spinte emotive impossibili da riprodursi senza la chimica intercorrente tra cuore e cervello. L’intelligenza artificiale non riuscirà mai a riprodurre “a freddo” quegli stessi valori che, per duecentomila anni, hanno pompato sangue vivo nelle vene ideative e creative dell’umanità incamminata sulla via crucis di una vita difficile, dura, imperfetta quanto si vuole, ma reale e che ha ancora molto da raccontare alla storia e, d’altronde, giusto per ritornare a Leopardi, senza tali spinte la vita sarebbe una «…notte senza stelle a mezzo il verno».

La storia dell’uomo, infatti, non è finita, come ipotizzato dal politologo americano Francis Fukuyama, ma è stata soltanto semisoffocata sotto la coperta sporca di un globalismo affarista e senz’anima, che avrà pure unificato per interconnessione i mercati, la politica e le mode, ma di certo (e per fortuna) non è riuscito ancora a omologare del tutto i diversi modi di pensare. Ma poi, alla fine, questa intelligenza artificiale è davvero così intelligente? No, perché mi pungono due interrogativi: se più tesisti universitari le forniranno le medesime indicazioni per compilare una tesi di laurea senza fatica, che cosa avverrà? Avremo universitari che magari a latitudini diverse, e addirittura in facoltà diverse avranno preparato la stessa tesi senza saperlo?

Poi c’è il paradosso finale: quella Sinistra internazionale che è globalista a oltranza, democratica e pluralista per autodefinizione, si trova a essere, per forza di cose e forse suo malgrado, dalla stessa parte di un algoritmo, quello dell’intelligenza artificiale, che in pratica eliminerà proprio il pluralismo ideativo, cioè la possibilità di arrivare individualmente alla formulazione del pensiero come impongono il (vero) pluralismo e la democrazia.

(La copertina è di Laura Zaroli)

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