Il viaggio nella vita

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Il ritorno a casa, dopo una lunga assenza, è anche un viaggio all’indietro nel tempo perché si ha la sensazione che siano ancora accanto a noi gli amici scomparsi, i compagni di gioco, quando d’estate noi bambini andavamo a tuffarci tra le pile di canapa messe a macerare nell’acqua del lagno di Ponterotto e un esercito di ranocchie. Ma poi ci accorgiamo che si sono perse nel mare della vita quelle limpide acque dove, felice, si riflesse l’immagine dei nostri acerbi visi
– Enzo Ciaraffa –

È l’alba inoltrata, e da quando il treno ha oltrepassato il ponte sul fiume Garigliano, il paesaggio mi appare, via via, più familiare. Gli alti vitigni, sistemati a filari tra un pioppo e l’altro, recano ormai soltanto pampini rinsecchiti segno che l’autunno è giunto anche al Sud. I raggi del sole, che lentamente sale nel cielo, sfumano tra la nebbiolina che s’innalza dalle zolle appena spaccate dal vomere del trattore, mentre le bufale già munte, lente, si avviano nei recinti esterni ed avvertono che siamo già arrivati ai Mazzoni, terra di mozzarella e di camorra.

Siccome il treno viaggia su di un’alta massicciata da alcuni chilometri, la visione dal finestrino della campagna che attraversiamo è quasi aerea, sicché, dal colore degli appezzamenti di terreno che mi scorrono sotto gli occhi, provo ad indovinare cosa vi sia seminato. Lo so, è irrazionale, ma a un certo punto sento il bisogno di abbassare il finestrino illudendomi di poter attingere alla memoria olfattiva per risentire il profumo dell’erba ancora bagnata dalla guazza notturna, la stessa di quando da bambino seguivo mio padre a caccia, assieme al suo cane preferito e mio paziente compagno di giochi, Remo. Un tempo felice quello, un tempo che sembrava dovesse durare per sempre e, invece, passò, come tutto passa e va.

Sentendo, poi, su di me lo sguardo di giusto rimprovero della signora seduta nello scompartimento che – poveretta – ha tutti i capelli scompigliati dal vento che violentemente irrompe, contrito, rigiro la manovella del finestrino e ritorno quietamente a sedermi. Dopo avere esibito un melenso sorriso di scusa verso la mia compagna di viaggio, giro di nuovo il capo versa la campagna che scorre sempre più velocemente, chiudo gli occhi e cerco di riflettere sul perché il mio cuore sia felice, e la mente no, di essere ritornato nel paese da cui sono scappato anni fa. Perché sono preso da un’indefinibile inquietudine?

L’apparire dei primi caseggiati mi distrae dalle riflessioni metafisiche e mi riporta al presente perché, in un batter d’occhio, arriviamo alla stazione di Aversa, dove non vi sarà nessuno ad attendermi… i miei genitori non ci sono più e i miei fratelli sono lontani, ognuno ha preso la propria strada.

Sceso dal treno, mi accorgo che in questi anni è cambiato il mondo ma qui tutto sembra rimasto come un tempo: il bigliettaio della stazione ha sempre la stessa aria annoiata, così come il poliziotto della Polfer. Tra me scommetto che, come un tempo, fuori troverò anche delle scassatissime auto da noleggio, abusive naturalmente.

«Dottò, vi serve la macchina, vi faccio un prezzo buono!». Con queste parole mi accoglie l’autista di una delle vetture ferme all’uscita dalla stazione ed io, preso per buono il prezzo “buono”, gli dico di portarmi in paese, senza prendere neppure in esame l’idea di aspettare la corriera, certo che – proprio come un tempo – viaggi in forte ritardo.

Il mio ciarliero autista decide di arrivare al paese non dalla provinciale ma dalla strada intercomunale, quella che passa davanti al cimitero e, cosa che non avevo messo in conto, gli dico di fermarvici, pago la corsa e mi avvio verso la tomba dei miei genitori: ma e là che voglio veramente andare? Mentre mi incammino per i viali assolati con questa domanda in testa, ho la netta sensazione che siano accanto a me gli amici scomparsi, i compagnucci del lagno di Ponterotto, dove d’estate noi bambini andavamo a tuffarci tra le pile di canapa messe a macerare nell’acqua e un esercito di ranocchie, ma è soltanto una sensazione: si sono perse nel mare della vita quelle limpide acque dove, felice, si riflesse l’immagine dei nostri acerbi visi.

E, poi, sembra di vedere anche te che mi vieni incontro, come quel pomeriggio dell’11 agosto del 1963 quando, con le labbra serrate dall’innocenza dei nostri quattordici anni, mi desti il primo bacio della tua e della mia vita. Allungo le braccia per stringerti come tanti anni fa, ma subito ti dissolvi, forse per punirmi di non essere tornato quando la vita stava per sfuggirti dalle mani. Ti chiamo per nome, ma poi mi rendo conto che in questo luogo i nomi non hanno più senso… infilo una rosa nell’ugello della lastra di marmo che ti ricopre e vado via. Giovinezza.

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