Il Santo Padre del Congresso di Vienna

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Sconfitto definitivamente Napoleone Bonaparte, il Duca di Serracapriola fu nominato inviato straordinario del Regno di Napoli al Congresso di Vienna, dove si conquistò il nomignolo di “Santo Padre” della diplomazia. Infatti, se il mattatore di quel congresso voluto dall’Austria fu Metternich, il Duca fu il suo occulto e indiretto interlocutore mentre faceva buona guardia alle prerogative del re Borbone che, con l’unione del Regno di Sicilia a quello di Napoli, aveva assunto la denominazione di Ferdinando I
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Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia ci mette il mondo a disposizione con un clic sulla tastiera del computer, ma ci tiene distanti dai nostri simili in carne ed ossa, dai sentimenti, dalle buone letture, dalla scuola, dai musei, dalle gallerie d’arte e da tutto quanto rendeva prima del Covid la nostra vita spumeggiante e, perciò, degna di essere vissuta. In questo periodo, invece, come degli assetati nel deserto, molti di noi sentono la necessità di abbeverarsi a qualche rilettura sul nostro passato perché – dimenticanza molto diffusa nel mondo di oggi – ciò che siamo non è nato con un clic. Sì, tutti abbiamo una storia alle nostre spalle a sorreggerci, e d’avanti a noi per spronarci, nonostante il fatto che gli storici siano adusi buttarsi come fiere fameliche su personaggi ed eventi che conoscono tutti (è più facile vendere libri così…), trascurando coloro che, pur non protagonisti di grandi imprese, hanno scritto e descritto realmente la vicenda dell’umanità. Meno male che, come sosteneva Manzoni, la storia è una guerra contro il tempo, in quanto chiama a nuova vita fatti e protagonisti del passato, come nel nostro caso il napoletano Duca di Serracapriola. Qualcuno dei visitatori di questo blog, giusto per rimanere in ambito manzoniano, si starà chiedendo chi sia questo Carneade o perché lo ricordiamo, e se avrà la costanza di leggerci fino in fondo, lo scoprirà.

I conduttori delle chiatte che, all’inizio dell’Ottocento, risalivano il canale della Fontanka di San Pietroburgo, che nasce e muore nel fiume Neva, quando arrivavano all’altezza della riva sulla quale, tra gli altri bellissimi palazzi, sorgeva quello dei principi Wiazemski, prendevano a intonare “Lo cardillo”, una canzone che a Napoli si cantava fin dai tempi di Masaniello. In verità, anche a volerla interpretare nella schioppettante lingua napoletana, la canzone non sarebbe proprio ascrivibile tra quelle che mettono di buonumore, addirittura poi interpretata con la tenebrosa cadenza dei canti corali russi era roba da suicidio di massa! Ad ispirare i chiattaioli della Fontanka che, poveretti, non possedevano di certo un grande senso estetico, non era tanto quel palazzo quanto il Duca neapolitano che lo abitava, ovvero l’ambasciatore del re di Napoli presso la corte della zarina Caterina II. Ma partiamo dall’inizio.

Quando don  Antonino Maresca Donnorso, Duca di Serracapriola, rinnovò il parco delle carrozze e le divise di cocchieri e domestici al suo servizio, non immaginava di essersi prenotato il biglietto per la Russia. Quella rivoluzione policroma delle livree della sua servitù, infatti, fu fortemente criticata dal primo ministro di Ferdinando IV, Bernardo Tanucci, perché strideva con i suoi intenti di attenuare le fortissime sperequazioni sociali esistenti nel Regno, anche a causa di un’aristocrazia dilapidatrice al cospetto di strati popolari molto poveri. Il duca che era alquanto permaloso, ritenendo che le critiche espresse dal Tanucci avessero offeso la sua dignità, prima si auto esiliò nella villa di Sorrento, poi decise di allontanarsi addirittura da Napoli, andando a rappresentare il re Borbone in Russia dopo un periodo di permanenza a Firenze.

La popolazione di quella nazione sterminata e, per buona parte ghiacciata otto mesi l’anno, aveva in comune con i napoletani l’indole melanconica, punteggiata qua e là da guizzi di giovialità, perciò il duca non ebbe difficoltà ad inserirsi nel nuovo ambiente. In poco tempo conquistò l’amicizia di personaggi illustri e i favori della stessa imperatrice, che ne apprezzava la capacità negoziale e la ferrea fedeltà al suo re, tant’è che lo incaricò di rappresentare la Russia nelle trattative di pace con la Turchia e con la Svezia.

Morta la prima moglie, il Duca sposò la principessa Anna Wiazemski, figlia di un ministro dello zar allora sul trono di Russia e proprietaria di quel palazzo sul canale nei cui pressi i chiattaioli iniziavano a cantare “Lo cardillo”.

Il palazzo del neapolitano, come ormai era chiamato, pur non discostandosi, all’esterno, dal gusto architettonico della San Pietroburgo del tempo nella quale le più belle magioni e piazze erano state opere di architetti italiani. In seguito sarebbe stato proprio un architetto napoletano, Carlo Domenico Rossi, che avrebbe dato alla città l’aspetto che ha oggi. Il palazzo Wiazemski all’interno rifletteva lo stile napoletano – mediterraneo perché vi si fondevano i colori, i simboli, i luoghi ed i personaggi di Napoli e di Sorrento. In quella casa così particolare, a suggellare l’unione dei due mondi, che in modo anche bizzarro don Antonino era riuscito a fondere in un originale stile architettonico, nel 1790 nacque Nicola il figlio che sarebbe poi diventato ambasciatore e primo ministro del Regno delle Due Sicilie con il re Ferdinando II.

Quando sotto l’incalzare delle armate della Rivoluzione Francese i Borboni scapparono in Sicilia ed a Napoli s’insediarono Giuseppe Bonaparte prima e Gioacchino Murat dopo, don Antonino rimase praticamente in mutande perché il regime dei re napoleonidi gli confiscò tutto ciò che possedeva in patria, compreso il castello di Serracapriola. Benché non avesse più una rappresentanza ufficiale in Russia e fosse senza stipendio, il duca continuò a brigare per la causa del suo re in esilio a Palermo sotto la protezione degli inglesi, tant’è che palazzo Wiazemaski era tenuto sotto costante controllo dagli emissari e spie francesi operanti in Russia. Sconfitto Napoleone Bonaparte, don Antonino fu nominato quale inviato straordinario del Regno delle due Sicilie al Congresso di Vienna, dove si conquistò il nomignolo di “Santo Padre” della diplomazia europea. Infatti, se il mattatore di quel congresso voluto dall’Austria fu il Principe Metternich, don Antonino fu il suo occulto interlocutore mentre faceva buona guardia alle prerogative del re Borbone che, con l’unione del Regno di Sicilia a quello di Napoli, aveva assunto la nuova denominazione di Ferdinando I.

Fu il “Santo Padre”, infatti, a suggerire al rappresentante ufficiale napoletano presso quel Congresso, il Principe di Ottaiano, come smontare il progetto dei congressisti di lasciare Gioacchino Murat sul trono di Napoli. Mentre, però, le quotazioni del Duca salivano nell’ambito della diplomazia europea, paradossalmente scendevano presso la corte di Napoli, perché egli aveva pubblicamente criticato il re per aver richiesto l’intervento militare austriaco per “pacificare” il Regno, dimenticando che la moglie del re, la defunta regina Maria Carolina, era austriaca oltre che sorella di Maria Antonietta, la ghigliottinata sovrana di Francia. Peraltro, Ferdinando I non aveva digerito neppure la franchezza con la quale il Duca gli aveva fatto notare che, essendo rientrato a Napoli sulla punta delle baionette austriache, si sarebbe alienato il favore popolare e la sua dinastia avrebbe presto perso il trono e, perciò, gli tolse l’incarico di rappresentante napoletano in Russia.

Quella che il Duca aveva posto al suo re, più che un richiamo alla dignità dinastica, era una lucida questione di prospettiva politica, quella che la monarchia borbonica di Napoli non ebbe mai, tant’è che non si era accorta  della frattura che si stava creando tra la monarchia e l’emergente borghesia meridionale, la quale sotto i re napoleonidi aveva goduto di molte libertà che la Restaurazione aveva abolito. La dinastia sarebbe sopravvissuta ancora per quarant’anni. Ma per una questione anagrafica, don Antonino, per sua fortuna, non poté vedere lo sfacelo della classe dirigente del Regno di Napoli già all’approssimarsi di Garibaldi appena due generazioni dopo la sua.

Non tornò mai più a Napoli e morì a San Pietroburgo nel 1822, in quel palazzo che affacciava sul canale della Fontanka.

Amiamo pensare che il giorno della morte del Duca di Serracapriola i chiattaioli del canale, passando sotto palazzo Wiazemski listato a lutto, abbiano ancora una volta cantato Lo cardillo: «Lu patrone pe’ te nun reposa puvuriello pecchè adda murì».

E se noi, dopo due secoli, saremo riusciti a farlo resuscitare almeno per qualche minuto nella memoria di coloro che seguono questo blog, ne saremo contenti.

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