L’otto dicembre, il giorno in cui il papà, il nonno e i bambini di casa, tronfi, presentavano “ufficialmente” il presepe alla famiglia riunita e, chi poteva permetterselo, assoldava pure una coppia di zampognari provenienti, in genere, dai monti del Matese, che suonavano il “Tu scendi dalle stelle” in modo così mistico che i bambini non sapevano se ridere di gioia o mettersi a piangere per la commozione. Ma il loro raccoglimento mistico durava poco perché subito dopo si scatenavano come soltanto i bambini sanno fare quando c’è aria di festa
– Enzo Ciaraffa –
Nella sua commedia “Natale in casa Cupiello” Eduardo De Filippo dà una certa idea di che cosa era il presepe per noi italiani, in particolare per noi campani, una settantina di anni fa, anche se l’ignaro Lucariello interpretato da Eduardo incarna una passione per il presepe che è caricaturale, quasi patologica, e per questo non condivisa dalla sua famiglia, in particolar modo dal figlio Tommasino, al quale chiede spesso e vanamente: «Te piace ‘o presebbio?», speranzoso di avere almeno la sua di approvazione come “preseparo”.
Per fortuna la realtà era molto diversa a Napoli e in Campania, dove il presepe era una tradizione corale, un evento lungamente atteso che coinvolgeva i membri della famiglia di ogni età e che, contrariamente a quanto avveniva a casa dei Cupiello eduardiani, doveva essere pronto per l’otto dicembre, il giorno dell’Immacolata.
Per quel giorno, infatti, il presepe doveva essere al suo posto su di un tavolo collocato in un punto visibile della stanza da pranzo, per chi l’aveva, o direttamente in cucina, con la canonica capanna, la mangiatoia, i pastori, i re Magi, la Madonna, San Giuseppe, il bue e l’asinello. Questo era il presepe nella sua essenzialità anche se poi, a seconda della fantasia e delle possibilità economiche delle famiglie, erano frequenti delle variabili che, in verità, con la nascita del Redentore non ci azzeccavano nulla: la macelleria con la testa di maiale appesa fuori, la trattoria, il chiosco dell’acquaiolo, e tante altre rappresentazioni profane che erano la proiezione inconscia di inappagati desideri, come quello di poter mangiare bene tutti i giorni, un’evenienza questa che oggi può sembrare scontata ma che all’epoca non lo era affatto.
L’approntamento del presepe era, dunque, un evento che coinvolgeva tutta la famiglia con ruoli e mansioni diverse: il capo famiglia, e più spesso il nonno, costruivano l’intelaiatura in legno e, servendosi della carta di paglia gialla, quella che una volta utilizzavano i macellai, della colla di pesce e della vernice ad acqua preparate in casa, erigevano la mitica stalla, costruivano le montagne (in Palestina…), le grotte e perfino gli avvallamenti ed i fiumi.
Una volta creato il paesaggio con molte licenze artistiche, si tiravano fuori dalle scatole le statuine di gesso dei diversi personaggi del presepe, che avevano visto molti Natali, alcuni perfino diverse generazioni. Per ravvivare le fattezze di queste statuine scolorite dal tempo si utilizzava un piccolo pennellino, e le nonne ne curavano i vestitini di stoffa affinché fossero in ordine e, dove ci voleva, intervenivano con ago e filo con grande devozione. I bambini di casa, la manovalnza più entusiasta per la costruzione del presepe, avevano anch’essi un compito, quello di andare in giro per i campi e per giardini a prelevare zolle di muschio con le quali si rappresentava il verde dei campi nel presepe. Il bambinello di gesso nella mangiatoia, invece, lo si collocava a mezzanotte della vigilia di Natale, al ritorno a casa dalla funzione religiosa in chiesa.
Finalmente arrivava l’otto dicembre, il giorno in cui il papà, il nonno e i bambini di casa, tronfi, presentavano “ufficialmente” il presepe alla famiglia riunita e, chi poteva permetterselo, assoldava pure una coppia di zampognari provenienti, in genere, dai monti del Matese, che suonavano il “Tu scendi dalle stelle” in modo così mistico che i bambini non sapevano se ridere di gioia o mettersi a piangere per la commozione. Ma il raccoglimento durava poco perché, subito dopo, la casa diventava il palcoscenico di un allegro bailamme, al quale spesso contribuiva l’allegro chiacchiericcio dei vicini di casa, intervenuti anche perché allettati dalla possibilità di poter assaggiare precocemente qualche dolce natalizio, quelli che un tempo si preparavano in casa con ingredienti economici e di facile reperibilità, come uova, farina e mosto: parliamo dei mostaccioli e dei susamielli. Erano, ovviamente, cosa molto diversa da quelli che oggi si acquistano al supermercato in confezione sigillata, anche perché nessun supermercato al mondo sarebbe più capace di sigillare il profumo delle bucce d’arancio che, come incenso pagano, il giorno della presentazione del presepe si mettevano a bruciare nel camino o nel braciere allo scopo di rendere profumata la casa e più sante le persone che vi abitavano. Come nessuno, eccetto la memoria di noi vecchi, sarebbe più capace di ricostruire gli ingenui volti di persone felici e piene di fiducia nel domani, riunite intorno ad un casereccio manufatto di legno e di carta colorata, che cantavano alla loro maniera un po’ mistica e un po’ pagana, le lodi al Creatore.
Ma i più felici nella circostanza erano certamente i piccoli di casa che già iniziavano a litigare tra di loro su chi dovesse avere il privilegio di collocare il bambinello nella mangiatoia la notte di Natale. A quegli adulti sorridenti, felici anche se indigenti dell’arrivo di Gesù, a quei bambini vocianti, con le gote arrossate dal freddo e le ginocchia sbucciate, credetemi, non c’era bisogno di chiedere, come a Tommasino Cupiello, «Te piace ‘o presebbio?»… essi erano il presepe!
Ve lo attesta un bambino di allora.