Il re Ferdinando II di Borbone amministrava il Regno delle Due Sicilie come gli era stato insegnato, cioè male, ma profondeva in tale esercizio tutta la dedizione della quale era capace non disgiunta da una certa dose di realismo politico. Era sì un despota ma, essendo un despota napoletano, era anche molto curioso, perciò voleva sapere tutto di tutti, soprattutto i pettegolezzi
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I napoletani di oggi stenterebbero a credere che fino al 1869 via Toledo fosse un malmesso pendio e che via Foria, quando pioveva a dirotto, diventava un fiume che nella sua corsa verso il mare travolgeva, non di rado, persone, cose e animali: per questo motivo la località prese il nome di Lava dei vergini. Così come anche nelle vicinanze del Palazzo Reale, esattamente tra il teatro San Carlo e l’attuale Gambrinus, in caso di pioggia persistente si formava una specie di lago, o lavarone in napoletano, il cui guado non era praticabile a piedi.
Una tale situazione costringeva i napoletani, che da Santa Lucia volevano andare verso via Toledo oppure al Maschio Angioino e viceversa, a rasentare il Palazzo Reale e ciò provocava continui battibecchi con i Dragoni della Guardia Reale perché questi, nonostante la contingenza, intimavano loro di non oltrepassare la striscia bianca del cosiddetto Largo di Palazzo. In realtà, quella striscia, oltre a delimitare la zona di sicurezza, veniva utilizzata dai nobili come area destinata esclusivamente al loro passeggio, il passeggio dei don Ciccilli, come venivano chiamati dai popolani, ai quali non di rado qualche scugnizzo lesto di gambe destinava pernacchie o torsoli di frutta.
Eppure quando un allampanato signore di mezza età, con la palandrana nera piuttosto logora e le mani intrecciate dietro la schiena, si avvicinava al Palazzo Reale, i Dragoni non soltanto non lo allontanavano ma addirittura mostravano deferenza. Era il marchese Emilio Capomazza, il presidente del Consiglio generale della Pubblica istruzione, l’equivalente del nostro ministero dell’Istruzione con aggiunta, però, di alcune incombenze che oggi sono responsabilità del ministero degli Interni, come il controllo sulla liceità delle opere pubblicate a mezzo stampa.
Il re Ferdinando II di Borbone amministrava il Regno delle Due Sicilie come gli era stato insegnato, cioè male, ma profondeva in tale esercizio tutta la dedizione della quale era capace. Era sì un despota ma, essendo un despota napoletano, era anche molto curioso, perciò voleva sapere tutto di tutti, specialmente i pettegolezzi. Sicché, quando don Emilio, come lui lo chiamava confidenzialmente, veniva convocato a Palazzo, rassegnato alzava gli occhi al cielo pensando al fuoco di domande al quale sarebbe stato sottoposto, domande che, il più delle volte, riguardavano coloro i quali erano ritenuti i più pericolosi avversari della monarchia borbonica, ovvero ‘E nquacchiacarte capuzziell (i caporioni imbrattacarte). Ferdinando II, infatti, aveva in uggia poeti e scrittori, che chiamava anche pennaruli, perché li riteneva tutti dei pericolosi rivoluzionari.
E siccome tra le incombenze del marchese Capomazza v’era anche quella di autorizzare, o meno, le pubblicazioni editoriali, il re voleva conoscere, in anteprima, gli autori dei testi non ritenuti meritevoli della canonica dicitura sul frontespizio: “Si permette che la suindicata opera si stampi; però non si pubblichi senza un secondo permesso, che non si darà, se prima lo stesso Regio revisore non avrà attestato di aver riconosciuto essere l’impressione uniforme all’originale approvato”. Come dire che, ove occorrente, il censore avrebbe censurato anche se stesso! Cose che soltanto nella Napoli dei Borbone potevano accadere.
Il marchese Capomazza era anche consultore di Stato, carica che, grosso modo, corrisponde a consigliere della Corte Suprema ma, pur essendo leale servitore del suo re, non aveva l’animo del delatore, per questo motivo malvolentieri si assoggettava a quel rito a Palazzo. Era, infatti, un fine giurista e funzionario di specchiato rigore morale, la cui cultura era vastissima e, fatto strano per un napoletano disincantato, si interessava anche di religione. Ammirava, tuttavia, il pensiero di Voltaire e, come lui, odiava i gesuiti e combatteva con animosità l’interferenza di costoro nella vita dello Stato. Non erano infrequenti, infatti, i conflitti furibondi che ingaggiava con i seguaci di Sant’Ignazio.
Don Emilio era ricco, eppure molto tirato, tant’è che la moglie e i figli per scucirgli qualche carlino per le loro spese dovevano sudare le proverbiali sette camice.
Con la famiglia abitava stabilmente in un bel palazzo di vico Nilo, oggi vico San Nicola a Nilo, eppure quando terminava la sua giornata lavorativa, invece di recarsi a casa, si fermava presso un’altra proprietà, in prossimità dell’Arco Mirelli, che oggi si trova all’estremità ovest della Villa Comunale dove, senza neppure togliere la palandrana, dava di zappa e di vanga nell’orto dal quale ricavava ortaggi e frutta per la cucina di casa.
Il marchese Capomazza è un’altra di quelle figure che fanno a pezzi i luoghi comuni secondo i quali il napoletano-tipo sarebbe un genetico intrallazzatore, e che gli efficienti, disinteressati, servitori dello Stato esistano soltanto a nord della Pianura Padana, nonostante il fatto che Mani pulite sia nata proprio da quelle parti.
Invece, quando don Emilio rese l’anima a Dio, nel 1868, i figli trovarono infilzati a un gancio nella cucina del palazzo all’Arco Mirelli tutti gli statini degli stipendi che il padre non aveva mai ritirato in tesoreria: come dire che l’integerrimo e disinteressato funzionario borbonico non era mai passato per la cassa! A questo punto è inevitabile pensare che, invece di rincorrere tangenti come facevano parecchi ministri suoi contemporanei e ancora fanno alcuni suoi posteri, don Emilio, appena usciva dal ministero, se ne andava tranquillamente a curare i suoi cocozzielli nell’orto, dove prendeva la zappa e lasciava le buste stipendio appese in cucina.
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