Noi non celebreremo la vittoria nella Grande Guerra perché le guerre, in realtà, non le vince mai nessuno, ma ricorderemo e pregheremo, ognuno a suo modo, per l’eroismo del nostro soldato e lo spirito immortale di chi amò l’Italia fino al punto di farle dono consapevole della propria vita
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Alle ore 15,00 del 3 novembre 1918, in Villa Giusti a Padova, fu firmato l’armistizio che poneva fine alla guerra tra l’impero austroungarico e l’Italia, anche se al fronte le armi iniziarono a tacere nel pomeriggio del 4 novembre, poche ore dopo l’uscita del Bollettino di Guerra numero 1268 a firma del generale Armando Diaz e da allora ricordato come il Bollettino della Vittoria.
Tuttavia, per ricordare quella titanica lotta contro un avversario più forte di noi in campo militare, partiremo non dall’ultimo giorno di guerra ma dal primo, ovvero il 24 maggio del 1915.
Allo scoppio della guerra, l’esaltazione patriottica impedì all’opinione pubblica, alla classe politica e agli stessi vertici militari, di ponderare con lucidità i rischi di una guerra moderna che essi, tra l’altro, non ritenevano sarebbe durata molto, né che avrebbe fatto milioni di morti tra i belligeranti delle opposte alleanze. Ebbene, se non fosse stato per il fatto che le piazze delle principali città erano percorse da cortei di neutralisti e d’interventisti, possiamo dire che in quel primo giorno di guerra la vita in Italia scorreva come sempre e nessuno sarebbe riuscito a immaginare che si stessero preparando eventi militari e politici dopo i quali nulla sarebbe più stato come prima, in Italia, in Europa, nel mondo.
Molte persone quel giorno ancora non si rendevano conto di essere veramente in guerra. Ma come – si domandavano – appena pochi mesi fa la nostra nazionale di calcio ha battuto per 3 a 1 la Svizzera e adesso siamo in guerra? Ma per alcuni calciatori di quella nazionale sarebbe stata la loro ultima vittoria, perché sarebbero caduti nella guerra che era appena iniziata. Il più noto tra essi, il centrocampista e allenatore dell’Inter Virgilio Fossati, cadrà sul Carso col grado di capitano meritando anche la medaglia d’argento al valor militare. Insomma, nessuno in quei giorni possedeva tanta capacità di analisi da capire che la Belle époque per noi italiani stava per terminare in modo tragico.
«La guerra è scoppiata; eppure… – scriveva esultante il Gazzettino di Venezia nell’edizione del 24 maggio del 1915 – attraversando le nostre campagne non lo si direbbe. Le campagne magnifiche, ubertose, come di rado si vedono, appaiono ridenti sotto il solleone, qua e là qualche bue ara: tutto è pace e serenità».
Sembra di sentir recitare la poesia Il bove ma la prosa carducciana dell’articolista evidenzia l’impreparazione, anche psicologica, dei media, della classe politica e di riflesso della popolazione, la quale era convinta che le sue armate in un battibaleno avrebbero piantato il tricolore a Trieste e Trento, e se ne sarebbero ritornate a casa. Purtroppo, l’idea che la guerra in corso avrebbe chiuso il ciclo risorgimentale, influenzò i vertici militari fino al punto che essi l’avrebbero condotta come l’ultima guerra del Risorgimento anziché la prima del XX secolo, quello che avrebbe visto la scienza e la tecnologia porsi al servizio della morte.
Peraltro, nonostante la lezione proveniente dal fronte occidentale dove si combatteva già da un anno, nessuno a Roma si rese conto che lo sviluppo tecnologico, il peso finanziario e industriale pressoché equivalente di tutti i Paesi in lotta, li aveva messi su di un piano di sostanziale parità. In altre parole avrebbe trasformato, quella in corso, in guerra di posizione per gli eserciti e di logoramento per le nazioni. Eppure, ad appena mezzo secolo dalla sua Unità, l’Italia resse una prova che fu identitaria e morale prima che militare.
Ciò si rese possibile perché soldati allevati prevalentemente a polenta e ciambotta avrebbero combattuto per tre anni e mezzo sui picchi innevati delle Alpi e nelle paludi lungo il corso del Piave contro gli austro tedeschi spesso anche a mani nude e con le pietre. E, comunque, la cosa che non poteva capire l’articolista del Gazzettino era che le campagne venete erano tranquille e ubertose soltanto perché il nemico ci aspettava arroccato in alto, dove dalle alture del Trentino dominava la pianura veneta e da quelle dell’Isonzo teneva sotto tiro la piana del Friuli, lungo un fronte di 600 chilometri che andava dalla Svizzera al Mare Adriatico.
Ma i sodati delle leve anziane e i ragazzini del ‘99 ressero contro ogni previsione e, appena un anno dopo il disastro di Caporetto, riuscirono a ricacciare gli austriaci di là del Piave per poi inseguirli fino al Brennero. Quel risultato ci costò 41 mesi di durissima guerra di posizione e oltre 650.000 morti… ma quanto eroismo e sacrificio, quanto amor di Patria e quanta abnegazione nel soldato italiano.
Ecco, domani noi non celebreremo la vittoria in quella guerra perché le guerre non le vince mai nessuno e, comunque, per come la vediamo noi esse non si celebrano, ma ricorderemo l’eroismo e lo spirito immortale di chi amò l’Italia fino al punto di farle dono consapevole della propria vita. Inginocchiamoci in silenzio e proponiamoci di essere degni di loro.
(Copertina: il ministro della difesa Guido Crosetto in ginocchio d’avanti al Milite Ignoto)
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