I gerarchi fascisti del 25 luglio 1943 ebbero più dignità dell’attuale classe politica?

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Ci volevano settantasei anni di totale spadroneggiamento della Sinistra nelle istituzioni dello Stato democratico per riuscire nella missione impossibile di ridare una qualche dignità perfino a quei gerarchi fascisti che nel luglio del 1943, sebbene tardivamente, seppero anteporre il supremo bene del Paese a quello della loro fazione politica ben sapendo che alcuni di essi avrebbero pagato con la vita una tale scelta

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La storia d’Italia è ricca di avvenimenti dimenticati o interpretati ad usum dei potenti di turno, specialmente quando si tratta di avvenimenti che, in qualche modo, vanno a costituire un raffronto impietoso per la classe di potere imperante. Uno di questi avvenimenti è certamente legato alla caduta del fascismo come regime legale.   

La notte tra il 24 e il 25 luglio del 1943, diciannove dei ventotto gerarchi fascisti riuniti nel massimo organo costituzionale del tempo che era il Gran Consiglio del fascismo e il re, che aveva dato in segreto avallo all’operazione, sfiduciarono Mussolini con l’illusione di potersi smarcare da lui e dal ventennio prima che la barca affondasse del tutto. Seguì, l’indomani, l’arresto di colui che era stato il capo del governo italiano per oltre vent’anni a Villa Savoia, ovvero nella casa privata del re imperatore: una roba del genere non sarebbe avvenuta neppure nella Roma di Caligola! Ma andiamo avanti.

Il facile arresto di Mussolini liberò Vittorio Emanuele III dal timore di una rivolta della Milizia Fascista ma non dalla paura per la reazione che avrebbe avuto l’alleato nazista. Fu quella paura a impedire a lui e al nuovo capo della dittatura militare, Pietro Badoglio, di denunciare preliminarmente il Patto d’Acciaio con Hitler, per poter subito innalzare la bandiera del nuovo riscatto nazionale che avrebbe impegnato le truppe tedesche in Italia favorendo una più rapida risalita degli Alleati dalla Sicilia dove erano sbarcati giorni prima.

A tal proposito, non regge la giustificazione che i nostri vertici militari fornirono dopo la guerra per legittimare la loro fuga dell’8 settembre 1943 e la scelta di non battersi da subito contro i tedeschi, per assicurare – così essi sostennero – la continuità dello Stato. Neppure la scusa della disparità delle forze in campo regge perché, oltre al milione di uomini della contraerea, della difesa costiera e dei servizi a terra della Regia Marina e dell’Aero­nautica dislocati sul territorio italiano tra il 25 luglio e l’8 settembre del 1943, questa era la comparazione delle Unità italiane con quelle tedesche:

  • Italia Settentrionale: 10 divisioni italiane contro 8 tedesche;
  • Italia Centrale: 7 divisioni italiane contro 2 tedesche;
  • Italia Meridionale: 4 divisioni italiane contro 6 tedesche;
  • Sardegna: 4 divisioni italiane contro 1 tedesca.

Peraltro, l’idea del re di sostituire la dittatura politica di Mussolini con quella militare di Badoglio si sarebbe rivelata perniciosa non soltanto per l’Italia, ma anche per la stessa monarchia, perché quel Generale piemontese bolso e pelato – tutta furbizia contadina – che aveva spudoratamente fornicato col fascismo, dal quale aveva ricevuto titoli nobiliari, cariche e soldi, non era neppure fisicamente idoneo a suscitare diffusi entusiasmi patriottici nel popolo italiano. In quel compito sarebbe riuscito meglio il Savoia meno compromesso col regime, il principe ereditario Umberto II, se avesse avuto più testosterone e se il regale padre avesse avuto il buonsenso di abdicare in suo favore.

La verità era che sia Vittorio Emanuele III che Badoglio erano figli della concezione politica dell’Ottocento e, perciò, inadatti a fronteggiare eventi che già preludevano a un assetto mondiale sovrannazionale e che essi non potevano neppure immaginare, come non potevano immaginare che il destino dell’Italia era già stato scritto nei protocolli delle dodici conferenze Alleate che si tennero dal 1941 al 1943. Il re, pertanto, per salvare il Paese e l’istituto monarchico, all’indomani del 25 luglio, non avrebbe dovuto nominare capo del governo un residuo dell’Ottocento come appunto Badoglio, ma il rappre­sentante di una nuova generazione politica capace di confrontarsi con gli Alleati e di battersi con gli ex alleati nazisti, senza inibizioni e senza complessi, per arrivare all’inevitabile armistizio. Dal suo limitato punto di vista, tuttavia, la scelta di Vittorio Emanuele III di puntare sul Generale Badoglio era stata coerente perché egli pensava di poter mantenere in piedi un regime reazionario anche senza Mussolini che – se costretto da un’improbabile rivolta della Milizia – avrebbe sempre potuto sostituire con uno dei gerarchi fascisti del 25 luglio, come Dino Grandi, molto vicino alla casa reale e propugnatore del tirannicidio.

Ed è a questo punto che una considerazione diviene inevitabile: ci sono voluti settantasei anni di spadroneggiamento della Sinistra nelle istituzioni dello Stato democratico per riuscire nella mission impossible di ridare una qualche dignità perfino a quei gerarchi fascisti che, sebbene tardivamente, il 25 luglio del 1943 seppero anteporre il bene del Paese a quello della loro fazione, ben sapendo che alcuni di loro stavano rinunciando alla vita per una tale scelta.

I politici della democraticissima Repubblica Italiana, invece, per salvare il Paese non sono disposti a rinunciare (eventualmente…) neppure a un solo stipendio e, anzi, hanno dimostrato di essere pronti ad ogni compromesso con la loro coscienza pur di salvare il sistema che li ingozza. Fingendo, tra l’altro, di non vedere che è alle porte un altro fascismo, molto più subdolo e pericoloso del primo perché, anche se non indossa divise visibili, utilizza il medesimo squadrismo, quello delle brigate del politicamente corretto grazie alle quali il potere, i governi, possono compiere, ormai, ogni nefandezza – anche ridurre le nostre libertà costituzionali – per un indimostrato bene superiore, tanto superiore che non siamo neppure sicuri che in autunno ci manderanno a votare per le amministrative, magari con la scusa di un’ennesima variante virale.

È a tali riflessioni che ci induce quest’anno il 25 luglio. E non è un bel riflettere.

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