Al nostro esercito mancavano artiglierie di grosso calibro, materiali di supporto e quelle mitragliatrici di cui, invece, erano ben muniti gli eserciti avversari. Mancavano anche riserve sufficienti e addestrate di ufficiali effettivi e di complemento, e questo mentre le tradotte iniziavano a portare verso il fronte soldati sottoalimentati e che, in due anni di leva, avevano sparato sì e no trecento cartucce a testa
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2 novembre 2018 – Quest’anno ricorre il centenario della fine della I guerra mondiale e, salvo qualche sporadica iniziativa istituzionale, non abbiamo colto in giro un gran fermento di manifestazioni per ricordare un avvenimento che segnò la storia del nostro Paese e dell’intera Europa. Speriamo, perciò, in quattro puntate peraltro controcorrente, a partire da oggi, di riuscire a dar noi un modesto contributo al ricordo, perché le guerre, qualsiasi guerra, si ricordano ma non si celebrano.
Dopo avere tergiversato per quasi un anno, il 26 aprile del 1915 l’Italia firmò in modo segretissimo il Patto di Londra con il quale s’impegnava a entrare in guerra contro l’Austria, un patto così segreto che l’esercito apprese di doversi mobilitare appena diciannove giorni prima della dichiarazione di guerra, dove per la mobilitazione generale le sarebbero occorsi quaranta giorni. Come se il nostro presidente della Repubblica decidesse di dichiarare una guerra all’insaputa del ministro della Difesa! Quella che l’Italia si accingeva a combattere non era una guerra che si sarebbe esaurita in una o due battaglie e con qualche migliaio di morti alla frontiera come quelle del passato, perché inserita in un ordito strategico che si era costituito andando perfino oltre la volontà degli appartenenti alle due alleanze che si contrapponevano, che andava dai Monti Allegani alle Alpi bavaresi, dagli Urali alle Alpi austriache, dal canale della Manica al Bosforo.
Era la prima guerra che avrebbe coinvolto intere nazioni assieme a tutto il loro apparato industriale e produttivo. Pertanto, invece di continuare a giocare sull’equivoco, il confine tra le prerogative del governo e dello Stato maggiore doveva essere tracciato almeno prima dell’inizio delle operazioni. Era fatale, dunque, che il capo di Stato maggiore, il generale Luigi Cadorna, fino a Caporetto conducesse le operazioni militari come il capo di un potere autonomo o, al massimo, parallelo a quello del governo di Roma. Ciò in un momento in cui gli eserciti austriaci e tedeschi erano particolarmente forti e motivati, avendo inflitto ai russi due sonore batoste a Tannenberg e ai Laghi Masuri, in particolar modo i tedeschi che al momento tenevano bene il fronte francese.
Era pure scritto che – stante le risorse dilapidate in Libia la guerra trovasse l’esercito logisticamente impreparato ma, come il solito, in corso d’opera i nostri soldati avrebbero rimediato con le loro inesauribili risorse emotive a quest’impreparazione generale, con gli assalti alla baionetta contro le mitragliatrici, con l’amor di patria contro i cannoni. A complicare il quadro generale contribuì il fatto che, non potendo conoscere fino all’ultimo momento la scelta di campo del governo, lo Stato maggiore non era riuscito a elaborare un coerente piano di guerra come, per esempio, quello di concentrare i primi sforzi offensivi sulle posizioni strategiche aventi per epicentro Innsbruck e Lubiana, approfittando del fatto che in quel momento l’Austria era impegnata ad alimentare il fronte orientale.
Al nostro esercito mancavano artiglierie di grosso calibro, materiali di supporto e quelle mitragliatrici di cui, invece, erano ben muniti gli eserciti avversari. Mancavano anche riserve sufficienti e addestrate di ufficiali effettivi e di complemento, e questo mentre le tradotte iniziavano a portare verso il fronte soldati che, in due anni di leva, avevano sparato sì e no trecento cartucce a testa. In quel momento i nostri centri di arruolamento potevano vestire e armare soltanto settecentocinquantamila soldati, e se a questo si aggiunge che del milione e trecentomila uomini che si stimava occorressero inizialmente ve ne erano alle armi meno di trecentomila, si capisce che per l’Italia la Grande Guerra non iniziasse proprio nel migliore dei modi. Per farsi un’idea di com’eravamo messi in fatto di materiali e dotazioni, basti pensare che i nostri soldati si accingevano ad affrontare un nemico che non aveva mai fatto mistero di possedere gas asfissianti senza avere, inizialmente, in dotazione maschere antigas e neppure gli elmetti. Sia le une, sia gli altri sarebbero stati distribuiti solo nel 1916, prestati dalla Francia che, tra l’altro, fu la prima a sperimentare gli effetti dei gas asfissianti nel corso di quella guerra. Sicché, fino a quel momento, per difendersi dall’yprite e dal fosgene, gas che iniziarono a lanciare gli austro-tedeschi, per un anno i soldati italiani applicarono una direttiva molto tecnologica dello Stato maggiore: infilavano un pezzo di pane bagnato in bocca e coprivano il viso col fazzoletto, un rimedio casereccio che non li avrebbe protetti neppure da una scoreggia di vacca. Purtroppo, allo scoppio della guerra, l’esaltazione emotiva impedì all’opinione pubblica, alla classe politica e agli stessi vertici militari, di ponderare con lucidità i rischi di una guerra moderna che essi peraltro non ritenevano sarebbe durata molto, né che avrebbe fatto milioni di morti.
Immagine in evidenza: 24 maggio 1915, l’Italia entra in guerra, prima pagina del Corriere della Sera