Si deve sperare che il suicidio di Luigi Sorrentino possa servire almeno a smuovere qualche coscienza alla Difesa, affinché s’incominci a prestare più attenzione alle vicende sanitarie/esistenziali del personale militare, soprattutto quando è in convalescenza a casa, e si provveda, finalmente, a definire il quadro normativo delle provvidenze per i colpiti da neoplasie e per le loro famiglie, così come stabilito dalla Corte di Cassazione
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29 ottobre 2018 – I poliziotti che la sera dello scorso 23 ottobre sono entrati in un appartamento situato al quinto piano di via Rosta, nel centro storico di Torino, probabilmente avrebbero voluto trovarsi altrove: avanti ai loro occhi, impiccato, v’era il corpo penzoloni di uno di loro perché, come loro, si guadagnava da vivere pericolosamente, con una divisa addosso, e che era piuttosto noto nella città del Valentino. È stato così che ha scelto di morire, di andare avanti come si usa dire negli Alpini al quale corpo apparteneva, il caporale maggiore Luigi Sorrentino. Perché lo ha fatto? Perché se n’è andato senza neppure un rigo che spiegasse il suo gesto?
Non è mai facile rispondere a domande simili, perché non si possono indovinare i pensieri, le sensazioni e le ragioni visibili che inducono una giovane persona – anche una persona a noi vicina – a farla finita con la vita. E questo perché certe pene interiori, quei tarli esistenziali che spesso divorano la mente e l’animo, gravano sulla percezione di persone diverse in modo anch’esso diverso, sicché quello che è impossibile da sopportarsi per alcuni, lascia indifferenti altri.
Il gesto estremo di Luigi Sorrentino appare ancora più inspiegabile se consideriamo che, per carattere e formazione professionale, egli non apparteneva alla schiera di individui i cui smarrimenti e fragilità ci vengono spesso consegnati dalla cronaca. Era, infatti, conosciuto come Gigi l’immortale a causa del fatto che nel 2006 era riuscito a scampare ad un attentato dei terroristi talebani mentre si trovava in Afghanistan e, appena qualche anno fa, aveva vinto la sua più grande battaglia contro un nemico solitamente più implacabile dei talebani: la leucemia. E per quanto ne fosse guarito in seguito a trapianto di midollo, era stato lasciato a casa con uno stipendio di 1.500 euro al mese, nonostante le sue richieste di rientrare al proprio reparto con qualsiasi ruolo.
Come abbiamo anticipato, non siamo in grado di compenetrare le ragioni di un gesto così estremo ma possiamo, però, almeno tentare di delineare, a grandi linee, la cornice entro la quale esso è maturato. E la cornice è quella solita in questi casi: un uomo appena uscito dalle spire di una malattia terribile, separato dalla consorte, si ritrova con gli alimenti da pagare, due figli da gestire in condivisione e una prospettiva di solitudine in una città che non è la sua. Come deve essere stata insopportabile, per un guerriero, sentirsi prigioniero in un appartamento al quinto piano di uno stabile del centro storico di Torino, quando avrebbe avuto bisogno di sostegno e di conforto nell’unico posto dove era certo di trovarne e che, in un certo senso, lo aveva respinto: la sua caserma.
Nello scorso mese di luglio, trattando del suicidio di un altro militare, il caporal maggiore Enrico De Mattia e dopo esserci interrogati sul che cosa fosse accaduto a lui ed agli altri due commilitoni che si erano tolti la vita poco prima, credemmo di avere individuato le probabili cause nella solitudine corroborata da qualche problema familiare o personale: «…Non più il solito compagno di stanza cui confidarsi, non più il collega anziano e padre di famiglia sempre pronto a soccorrerli con la sua esperienza, non più gli omologanti riti della propria caserma: da un giorno all’altro tutto è diventato loro estraneo! […] E la notte, la notte passata a vegliare in una solitudine ancora maggiore di quella del giorno, quanti pensieri si rincorrono nella mente di questi giovani, pensieri belli e brutti, mentre la loro anima ha per compagni unicamente i ricordi non sempre belli, non sempre confortanti, assieme alle tremolanti ombre dell’ambiente e della memoria».
Non vorremmo concludere svilendo il ricordo di Gigi l’immortale col metterci a polemizzare con la Difesa per avere usato due pesi e due misure: nonostante fosse guarito dalla leucemia non è stato riammesso in servizio, mentre l’allora sottotenente Gianfranco Paglia vi fu riammesso nonostante la perdita dell’uso delle gambe. Non vorremmo neppure criticare la Difesa per l’ancora irrisolta questione della dipendenza da causa di servizio delle neoplasie dei militari esposti all’uranio impoverito o a causa di esagerate pratiche vacciniche, che fino ad oggi hanno fatto 363 vittime, nonostante una sentenza della Corte di Cassazione favorevole ai militari. Qualche riflessione, però, dobbiamo pur farla.
Intervistato da un giornale online torinese una settimana prima di darsi la morte, Gigi aveva dichiarato di voler rientrare in servizio per non stare a casa a percepire lo stipendio senza far niente, con una precisazione che, in realtà, era una preghiera: «Non credo di chiedere molto, sono ancora padrone di andare a morire in missione con il mio cappello di Alpino sulla testa». Una preghiera che, purtroppo, nessuno ha saputo ascoltare.
Speriamo che la sua morte servirà a smuovere qualche coscienza a Roma affinché s’incominci a prestare più attenzione alle vicende sanitarie e/o esistenziali del personale anche, e soprattutto, quando è convalescente a casa e, finalmente, si provveda a definire le provvidenze per i militari colpiti da neoplasie da uranio impoverito e per esagerate pratiche vacciniche.
Se, come fortemente auspichiamo questo accadrà, allora il caporal maggiore Sorrentino non sarà morto invano e nella memoria dei militari colpiti dal suo stesso male diventerà per davvero Gigi l’immortale.
Immagine in evidenza: munizioni all’uranio (foto Polis Blog)