Ferragosto assieme ai nostri Carabinieri

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Fino al 1848 ai fieri Carabinieri era proibito portare i baffi e ciò era intollerabile per loro, perciò il comandante generale aveva eccitato il ministero della Guerra per far abolire tale divieto. L’iniziativa non fu cervellotica o inopportuna stante la guerra in corso ma ben mirata, anzi denotava anche certe introspezioni di natura psicologica perché quando si combatte e si muore allo stesso modo e per la medesima causa, è giusto avere anche gli stessi diritti e, perché no, gli stessi baffi

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Un tempo, durante gli anni della vituperata Prima Repubblica vigeva la tradizione che il Ministro degli Interni trascorresse il giorno di ferragosto in una centrale operativa dei Carabinieri o della Polizia. Non ci pare che questa tradizione sia ancora seguita e, in ogni caso, abbiamo deciso che saremo noi a trascorrere questi giorni di mezzo agosto assieme ai Carabinieri, partendo dal ricordare i loro… baffi. Perché? Perché i militi della Benemerita un tempo non potevano fare sfoggio di baffi, come si capisce da una circolare ministeriale del 9 settembre 1848: “In seguito all’eccitamento fàttone dal comandante di esso corpo, si è significato che la prescrizione dell’articolo prementovato si intenderà in tale senso modificata, vale a dire che li Carabinieri Reali di qualunque grado potranno portare li baffi, come gli altri militari”. Oggi potrà sembrare strano che, mentre si preparava la seconda fase della I Guerra d’Indipendenza, il ministero della Guerra si preoccupasse dei baffi dei Carabinieri ma, in effetti, una ragione c’era e riguardava quello che oggi si chiama governo del personale. Bisogna sapere che, all’epoca della circolare, i baffi erano un riconosciuto simbolo di mascolinità e pertanto li portavano tutti gli italiani adulti di sesso maschile, militari, nobili o popolani che fossero, eccetto preti e Carabinieri Reali. Immedesimandosi nello spirito del tempo, si capisce come quella proibizione generasse una frustrazione tra gli appartenenti al giovane Corpo di polizia, soprattutto a causa delle corbellature delle quali erano oggetti i Carabinieri da parte degli altri militari che, invece, i mustacchi potevano esibirli, e perciò potevano anche millantare una maggiore virilità rispetto a loro. E dalla maggiore virilità alla maggiore bravura militare il passo era breve. Ciò, però, era mal tollerato dai fieri Carabinieri, sicché il loro comandante generale eccitò il ministero della Guerra per far abolire il divieto di portare i baffi. Il provvedimento ministeriale non fu cervellotico o inopportuno, stante la guerra alle viste, ma ben mirato, anzi denotava certe introspezioni di natura psicologica: quando si combatte e si muore allo stesso modo, e per la medesima causa, è giusto avere gli stessi diritti e, perché no, anche gli stessi baffi. Questi erano i Carabinieri.

La I Guerra d’Indipendenza, comunque, fu la classica guerra delle occasioni perdute perché avrebbe potuto avere un esito diverso, se fosse stata combattuta sotto la guida di un sovrano meno mediocre e bacchettone di Carlo Alberto. Poteva essere determinante, ad esempio, assestare il colpo di maglio prima che le forze austriache della Lombardia, guidate dal feldmaresciallo Radetzky, ripiegassero verso il cosiddetto quadrilatero di Verona, Peschiera, Mantova e Legnago. Ma volere elencare tutti gli episodi gloriosi riguardanti i Carabinieri in quella sfortunata guerra, richiederebbe ben altri spazi e, perciò, ci limiteremo a citare i principali fatti d’arme che li videro protagonisti, anche perché a noi preme soprattutto evidenziare l’essenza professionale, ideale e umana degli appartenenti a questo Corpo, perché è quella che lo rende unico. D’altronde non vi fu battaglia delle tre guerre risorgimentali dove non rifulse il valore dei Carabinieri, anche se l’episodio più celebrato è quello della carica di Pastrengo dove il maggiore Alessandro Negri di Sanfront guidò ripetute volte la carica di tre squadroni di Carabinieri che aprirono così la strada per la conquista di Pastrengo a sciabolate.

I nostri militi, però, oltre al coraggio già da allora avevano uno spirito di corpo e una cocciutaggine difficilmente riscontrabili in altri corpi armati. Infatti, proprio a Pastrengo, un sottufficiale di uno dei tre squadroni, avendo avuto il cavallo ferito nella prima carica, pur di partecipare alla seconda, saltò sulla giumenta di alcuni contadini della zona e si lanciò nella mischia, venendo per questo cicchettato ufficialmente dai propri superiori per “…aver impiegato una cavalcatura non degna di un Carabiniere”: meno male che non era saltato su di un mulo, sennò lo fucilavano addirittura! Questi erano i Carabinieri.

Chi, però, seppe trasporre in poesia le loro imprese nelle guerre risorgimentali fu un fidato collaboratore di Cavour, Costantino Nigra, nel poema La rassegna di Novara, che fece da apripista all’abbondante letteratura che fiorirà sui Carabinieri nel corso di oltre due secoli: “Calma, severa, tacita, compatta/Ferma in arcione gravemente incede/La prima squadra, e dietro al Re s’accampa/In chiuse file. Pendono alle selle/Lungo le staffe nitide, le canne/Delle temute carabine. Al lume/Delle stelle lampeggiano le sguainate/Sciabole. Brillan di sanguigne tinte/I purpurei pennacchi, erti ed immoti/Come bosco di pioppi irrigidito. Del Re custode e delle leggi schiavi/Sol del dover, usi obbedir tacendo/E tacendo morir, terror de’ rei/Modesti ignoti eroi, vittime oscure/E grandi, anime salde in salde membra/Mostran nei volti austeri, nei securi/Occhi nei larghi lacerati petti/Fiera, indomita virtù latina/Risonate, tamburi; salutate/Aste e vessilli. Onore, onore ai prodi Carabinieri!”. Il verso segnato in corsivo divenne il principale motto dell’Arma, anche perché era quello che meglio rappresentava il modo di essere di uomini che sapevano essere eroi senza clamori, umili senza viltà e implacabili senza arroganza. Questi erano i Carabinieri.

Avendo combattuto in tutte le guerre del Risorgimento, era fatale che i Carabinieri avessero a che fare anche con uno dei suoi principali protagonisti, Giuseppe Garibaldi, che li aveva in così grande estimazione che nei suoi Mille troviamo un drappello di Carabinieri genovesi. Anche se non sempre i rapporti tra l’indocile nizzardo e i difensori della legalità regia, furono sereni e scevri da contrasti, ma ciò era inevitabile perché essi incarnavano due diversi modi di interpretare il Risorgimento: quello dei colpi di mano garibaldini, e quello della diplomazia di Cavour e dei suoi successori. Ai contrasti che nacquero tra il duce dei Mille e i Carabinieri torneremo tra poco con un episodio a dir poco folclorico, per adesso andiamo a vedere perché, quando e dove nacque l’appellativo del quale giustamente si fregia l’Arma dei Carabinieri e che divenne un suo sinonimo: Benemerita.

Il 24 giugno del 1864, uno dei deputati della commissione che doveva tramutare in progetto di legge una proposta del ministro della Guerra circa l’aumento degli effettivi nei Carabinieri, tale Soldi, fece una relazione al Parlamento che, per quanto sia elogiativa per il Corpo, è sconcertante nella premessa per alcune assonanze con i nostri tempi: “Il governo del Re vi chiede che aumentiate di altre lire 778,595 il capitolo 19 del bilancio passivo del ministero della Guerra, nel fine di accrescere di altri 1340 uomini la forza dei Reali Carabinieri…”. Lo sconcerto nasce dal rilevare che l’abitudine dei governi italiani di finanziare delle leggi con soldi che non hanno in cassa ha origini molto antiche. Meglio, dunque, ritornare alla continuazione della relazione del deputato Soldi al Parlamento per non farci il sangue amaro: “…Ci fu grato convincerci che l’interesse che tutti prendono perché l’arma dei Reali Carabinieri proceda di bene in meglio è in ragione appunto del pregio in cui essa è tenuta, e degli indefessi e segnalati servigi che la rendono dovunque veramente benemerita del paese…”. In verità, il caldeggiato aumento degli effettivi si rendeva indispensabile perché, proprio in quel periodo, i Carabinieri e l’Esercito stavano combattendo una dura battaglia contro il cosiddetto brigantaggio meridionale che, in realtà, fu una vera e propria guerra partigiana ante litteram a favore dei Borbone e, soprattutto, contro i metodi coloniali del nuovo governo nazionale.

Purtroppo, ancora oggi troviamo i Carabinieri a combattere nel Meridione, anche se stavolta il nemico ha altri nomi ma lo stesso fine dei partigiani borbonici: distruggere lo Stato. Infatti è triste costatare che, a 161 anni dall’Unità, i problemi di una parte del Paese sono ancora gli stessi, come ancora gli stessi sono i metodi ai quali ricorre lo Stato per venirne a capo. Forse è giunta l’ora che i reggitori delle sorti del nostro Paese incomincino ad interrogarsi sul perché, dopo un secolo e mezzo, troviamo ancora i Carabinieri a combattere l’illegalità nei boschi della Sila e delle Madonie.

Adesso, però, ritorniamo ai rapporti tra gli appartenenti alla Benemerita e Garibaldi. Nel novembre del 1867 il nizzardo, dopo essere stato battuto dai papalini a Mentana, attraversò il confine dello Stato Pontificio per dirigere su Firenze – al momento capitale d’Italia – ma il primo ministro Menabrea, che non voleva apparire come il suo mandante anche per una questione di equilibri politici europei, ordinò di arrestarlo. Perciò, ad attenderlo al confine dello stato pontificio Garibaldi trovò un colonnello dei Reali Carabinieri che aveva così fretta di tradurlo al carcere militare di La Spezia, da negargli perfino una sosta per soddisfare alcune esigenze corporali. Allora, incavolato e costipato, l’eroe dei due mondi non riuscì a trattenersi dal pronunciare una delle sue telegrafiche frasi anche se essa, come tante altre, non viene riportata dai libri di storia: “Lasciatemi almeno pisciare!”. Non sappiamo se quel colonnello accondiscese alla richiesta di Garibaldi, ma pensiamo di sì, sta di fatto che l’Ufficiale portò a termine la sua missione con rapidità, efficienza e soprattutto in incognito, data la notorietà del suo prigioniero. Questi erano i Carabinieri.

Di lì a pochi anni Roma diverrà la capitale d’Italia e, nel corso degli otto anni successivi, moriranno Mazzini, Vittorio Emanuele II e Pio IX che, assieme a Cavour, erano stati gli antagonisti/protagonisti del nostro Risorgimento. Il quinto, l’irrequieto Garibaldi, conduceva, ormai, una vita quasi tranquilla in quel di Caprera, discretamente controllato dal governo che non aveva dimenticato le sue non sempre prevedibili iniziative militari. Garibaldi, però, era diventato una intoccabile icona nazionale e, pertanto, poteva essere controllato soltanto con senso della misura e con paziente discrezione.

Controllato da chi?

Ma dai Carabinieri, naturalmente.

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