Eutanasia: quando il cuore non sa dove andare

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Al cospetto di una persona cara che soffre per un male incurabile, alcuni cercano, e trovano, la via d’uscita dal dolore nella preghiera; altri vorrebbero invece accompagnare la persona sofferente nella dipartita in modo indolore, come appunto vorrebbero fare i fautori dell’eutanasia; altri ancora s’immergono nel dolore illudendosi di riuscire ad assorbire come una spugna d’amore una parte di quella sofferenza; e poi vi sono altri che percorrono tutte e tre le vie

– Enzo Ciaraffa –

L’altrieri la Corte Costituzionale ha bocciato la richiesta di referendum sull’eutanasia proposta dai radicali, ritenendola inammissibile. A tal proposito mi chiedo se hanno ragione coloro che sono fautori della dolce morte consenziente per i malati incurabili oppure ha avuto ragione l’Alta Corte che ha bocciato il referendum. Non voglio entrare nel merito delle ragioni che hanno motivato le decisioni degli uni o dell’altra perché il lento e doloroso consumarsi di una persona amata è tremendo per chi è costretto ad assistervi senza poter fare nulla e, pertanto, ognuno cerca una sua via di uscita dal dolore. Alcuni cercano e trovano quella via nella preghiera, altri nell’aiutare la persona sofferente ad uscire in modo indolore dalla vita come vorrebbero appunto fare i fautori dell’eutanasia, qualcun altro invece s’immerge nel dolore, illudendosi di assorbire come una spugna d’amore una parte di quella sofferenza, ed altri ancora percorrono tutte e tre le vie.

Sono pertanto consapevole che con questo tipo di approccio mentale il mio contributo di pensiero sul delicato tema sarebbe minimo e disarticolato, perciò, ora che il tempo ha fatto cicatrizzare alcune mie ferite, posso soltanto riferire cosa accadde quando il destino volle sottopormi alla tremenda prova di dover assistere al lento consumarsi di una delle persone che ho più amato al mondo: mio padre. Sto parlando di un uomo buono che non era soltanto mio padre, era anche mio amico e collega (era stato militare come lo ero io). Egli sapeva essere anche critico costruttivo dei miei errori e, quando glielo chiedevo, insostituibile consigliere.

Poi subentrò una malattia di quelle a decorso lento ma che comunque, all’epoca, non lasciavano scampo sull’esito in un tempo più o meno breve, ma comunque doloroso. Sicché, di sofferenza in sofferenza, di ricoveri in ricoveri in ospedale, mio padre dovette affrontare qualche anno di travagli fisici, un vero calvario dovuto anche al fatto che possedeva un cuore molto forte e che non ne voleva sapere di cedere alla malattia. A tutto questo si aggiungeva il fatto che, nella percezione di chi assiste una persona cara, gravemente malata, gli anni sembrano molti di più di quelli che effettivamente scorrono perché – e chi ci è passato lo sa – i tempi della sofferenza sono lenti come l’accanimento crudele di una divinità maligna.

Poi presi a svolgere il mio servizio lontano sicché, per essere vicino a mio padre ed alleggerire il compito dei miei familiari che lo assistevano e lo medicavano, nei fine settimana facevo ritorno a casa per improvvisarmi anche io infermiere, giocatore di tressette e, ogni tanto suo complice nel fumare insieme una sigaretta lontani dagli sguardi di mia madre. Eppure, nonostante la sua precaria ma consapevole condizione fisica, mio padre era sereno, e ricordo che nei giorni che riuscivo a passare con lui avevamo momenti di grande comunione spirituale, anche se la mia partecipazione alla sua serenità era soltanto di facciata, in realtà ero devastato dentro. Lo ero in ragione del fatto che i miei perché rimanevano senza risposte e le suppliche si perdevano nell’empireo di un Dio che non percepivo più, ma della cui presenza, tuttavia, sentivo un intimo e insopprimibile bisogno.

Ricordo ancora le parole di mio padre qualche giorno prima di addormentarsi per sempre: «Avrei voluto tanto giocare con i nipotini che verranno…».

Sì, sono decisamente la persona meno indicata ad esprimersi sull’eutanasia.

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