È soltanto nel presepe la poesia del Natale

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Invece di sofisticare sugli improbabili offesi dal presepe cristiano, pensiamo piuttosto, almeno a Natale, di riunire intorno al nostro presepe ideale i figli che sono ormai grandi, i nipoti per la loro infanzia sfumata e quelle zampogne che, ormai, non s’odono che nel nostro cuore e che, per qualche giorno, ci faranno dimenticare la disperata solitudine nella quale viviamo il resto dell’anno
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Quest’anno, molto più degli altri anni, è politically correct far finta che non sia esistita la tradizione del presepe e ciò, a quanto pare, per non offendere gli islamici presenti più o meno legalmente nel nostro Paese: quest’abdicazione sentimentale, prima ancora che religiosa, alcuni la chiamano integrazione.

Il business, che vive di falsi miti e d’ipocrisie consumistiche, è stato il primo a fare sparire il presepe dalla maggior parte dei negozi, dalla pubblicità e perfino dalla televisione, a favore di un’orgia di abeti dai colori più inverosimili e di casette nordiche che con la tradizione del nostro Natale hanno poco, talvolta addirittura niente, a che vedere. Ma come si dice a Napoli «’O pesce fete d’ ‘a capa».

Nel periodo natalizio di tre anni, fa il vescovo di Padova, monsignor Claudio Cipolla, affermò che avrebbe fatto a meno del presepe in tutta la diocesi se ciò fosse stato utile a mantenere la tranquillità e le relazioni fraterne tra la religione cristiana e quella islamica. Nella circostanza il prelato padovano, oltre che antistorico, si mostrò anche piuttosto sprovveduto poiché dagli islamici Gesù è ritenuto l’ultimo dei profeti e, anche se non accettano la sua natura divina, ne hanno un grandissimo rispetto, tant’è che quando pronunciano il suo nome aggiungono Amin, l’equivalente del nostro Amen. E quand’anche fossero disturbati dal presepe, poco male perché tolleranza e abdicazione non possono diventare la medesima cosa. Peraltro, noi non ci offendiamo quando essi si mettono sul sagrato delle nostre chiese a svolgere le loro funzioni religiose e, anzi, il più delle volte parliamo con distaccato rispetto di Allah-Dio.

Via San Gregorio Armeno a Napoli, la via dei presepi

 La logica consumistica natalizia insegue fini che poco hanno a vedere con la coerenza cristiana e, pertanto, il business di questi giorni ha ritenuto opportuno ridurre od eliminare del tutto dal commercio il più pregnante simbolo del Natale, il presepe, perché offenderebbe la religione islamica. Che sciocchezza! Stiamo parlando di un simbolo che, a scorno degli ipocriti appiattiti sul politically correct, fu ideato da San Francesco di Assisi al suo ritorno dalla Terrasanta, come dire dal primo cristiano che tentò di far dialogare l’Islam e la Chiesa, esattamente come potrebbe fare il presepe oggi. Meno male che, a fronte di cotanta ignavia e gratuite sofisticherie, potremo, eventualmente, consolarci con il presepe della famiglia eduardiana dei Cupiello.

Infatti, nella commedia Natale in casa Cupiello Eduardo De Filippo ci fornisce un’idea molto precisa di che cosa fosse il presepe per gli italiani – per i meridionali in particolare – fino ad una cinquantina di anni fa, pur se nella finzione teatrale l’ignaro Lucariello incarna una passione appena tollerata dai suoi familiari.

Nella vita reale, invece, il presepe era e in parte ancora è, una costruzione corale che, contrariamente a quanto avviene in casa Cupiello, doveva essere completata entro l’8 dicembre, il giorno dell’Immacolata; il bambinello, invece, lo si collocava nella mangiatoia a mezzanotte della vigilia di Natale, al ritorno dalla messa.

La realizzazione del presepe era un evento che coinvolgeva tutta la famiglia, con ruoli e mansioni diverse. Il capo famiglia, coadiuvato dal nonno, costruiva l’intelaiatura in legno ed entrambi, servendosi della carta di paglia che al tempo utilizzavano i macellai, della colla di farina e della vernice ad acqua, plasmavano la mitica capanna, le grotte, i monti e perfino le valli.

Una volta pronta la scenografia, si tiravano fuori dalle scatole i pastori di gesso, delle statuine che avevano visto diversi Natali, alcune perfino diverse generazioni, per ravvivarne le fattezze con un piccolo pennellino. Le nonne, invece, curavano che i vestitini di stoffa dei pastori fossero in ordine e, dove ci voleva, intervenivano con ago e filo. I bambini di casa avevano anch’essi un compito, quello di andare alle base degli alberi del giardino a raccogliere le zolle di muschio con cui rappresentare il verde dei campi nel presepe… come se Gesù fosse nato in Nord Europa e non in una terra desertica come la Palestina. Ma nessuno faceva caso a queste sottigliezze geografiche perché la fede era tanta, il calore umano riscaldava più della stufa e l’entusiasmo dei piccoli era alle stelle.

Finalmente arrivava l’8 dicembre e il presepe veniva ufficialmente presentato alla famiglia riunita e, chi poteva permetterselo, assoldava anche una coppia di zampognari. La circostanza si trasformava in un allegro bailamme al quale non di rado contribuivano anche i vicini di casa, ma i più felici erano certamente i bambini che fin da subito iniziavano a litigare su chi tra loro avrebbe collocato il bambinello nella mangiatoia la notte di Natale. Evidentemente a quei bambini non ancora attossicati dal politically correct degli adulti, non c’era bisogno di chiedere come al Tommasino eduardiano «Te piace ‘o presepio?».

Perciò, invece di sofisticare sugli improbabili offesi dal presepe cristiano, pensiamo piuttosto, almeno a Natale, di riunire intorno al nostro presepe ideale i figli che sono ormai grandi, i nipoti per la loro infanzia appena sfumata e quelle zampogne che, ormai, non s’odono che nel nostro cuore e che, almeno per qualche giorno, ci faranno dimenticare la disperata solitudine nella quale viviamo il resto dell’anno.

Foto NewsCattoliche.it