I nostri governanti, prima di prendere in mano le sfilacciate redini di questo Paese, vadano ad ispirarsi in un luogo dove regna il silenzio e, per chi li sa ascoltare, accorati appelli alle coscienze: il Sacrario Militare di Redipuglia
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La data del 24 maggio, alla maggior parte dei giovani di oggi, dice poco ma a quelli della mia generazione fa sentire ancora l’orgoglio di essere progenie di una generazione che amò il proprio Paese fino al punto di sacrificargli la vita quando occorse. Il che successe tutti i giorni per 41 mesi sul fronte della Grande guerra. Anticipiamo, per evitare malintesi, che non è la guerra ad inorgoglirci ma, semmai, l’abnegazione, il sacrificio e l’eroismo con cui i nostri nonni – i figli di un’Italia povera ed allevati a base di giambottola e polenta – affrontarono e vinsero un potente esercito nel corso di un conflitto annoverato tra i più micidiali che la storia dell’uomo ricordi.
Essi, gli umili fantaccini di tutte le guerre, attraversarono la frontiera con l’Austria il 24 maggio del 1915 per andare a “far contro il nemico una barriera”, come recita la Canzone del Piave. Umili, male armati, inizialmente senza maschera antigas e senza elmetti, ma per loro generosità seppero diventare dei giganti nella storia. Per arruolarsi volontari arrivarono a frotte da ogni parte del mondo dove erano stati costretti ad emigrare, per offrire il proprio petto a quella Patria ingrata che, però, aveva bisogno di tutti i suoi figli per sopravvivere ad una tremenda prova.
Se in questi anni non avessimo confuso le alleanze con la sudditanza e la multilateralità in politica estera con l’abdicazione di poteri ed ideali, non ci troveremmo oggi a dover partire dall’abc per spiegare ai giovani che cosa avvenne il 24 maggio del 1915. E neppure dovremmo spiegar loro che cosa fu la Grande guerra per un popolo che, dalle Alpi a Lampedusa, si incontrò per la prima volta nelle trincee e che la società moderna, quella cosiddetta di massa, nacque nel sangue, come temiamo avverrà tra qualche generazione per la quintessenza di un’altra società di massa: quella globalizzata.
Rinsaviscano dunque – finché sono in tempo – i governanti e si rendano conto che nessuna Onu (che dal 1920 ad oggi non è riuscita ad impedire un solo conflitto), che nessuna Unione europea (la più odiata dai cittadini che ne fanno parte), o qualsiasi altra aggregazione sovranazionale ci metterà ragionevolmente al sicuro dalla guerra se esse non ridiventano ciò che erano inizialmente: un insieme di Patrie e di Nazioni e non, invece, la semplice sommatoria di budget o di Pil com’è oggi.
Ecco, prima di prendere iniziative a cuor leggero, come la rinuncia da parte dell’Italia a talune prerogative che sono, invece, dovere degli Stati-Nazioni, prima di abdicare al diritto alla sicurezza del loro popolo in nome di una solidarietà senza capo né coda, prima di frantumare ancor di più l’unità nazionale, i nostri governanti vadano ad ispirarsi in un luogo dove regna il silenzio e, per chi li sa ascoltare, tanti accorati appelli alle coscienze: il Sacrario Militare di Redipuglia.
In quel luogo 100.000 caduti ancora ci domandano perché sono morti, per quale Italia sono morti e se sono ancora “Sicure l’alpi… libere le sponde” grazie al sangue da loro versato. A partire da quel lontano eppure vicino 24 maggio del 1915.