…e il balcone si chiuse per sempre

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Se voleva salvare l’Italia e non, invece, sacrificarla per far rimanere in piedi una malvissuta monarchia, all’indomani del 25 luglio il re non avrebbe dovuto nominare capo del governo un residuato dell’Ottocento come Badoglio, ma il rappresentante di una nuova generazione politica capace di confrontarsi con i vincitori senza avere sulle spalle il peso del proprio passato

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La notte tra il 24 e il 25 luglio del 1943, diciannove dei ventotto gerarchi riuniti in quella specie di parlamentino fascista che era il Gran Consiglio e il re, che aveva dato il segreto avallo all’operazione, sfiduciarono Mussolini con l’illusione di riuscire a smarcarsi da lui e dal ventennio, prima che la barca affondasse del tutto. Seguì l’arresto di quello che era stato il capo del governo italiano per oltre vent’anni a Villa Savoia, nell’abitazione privata del re d’Italia che lo aveva nominato e sostenuto per quasi un quarto di secolo: perfino le operettistiche monarchie balcaniche sarebbero finite con più orgoglio e dignità dei Savoia! 

Sta di fatto che il facile arresto del capo del governo liberò Vittorio Emanuele III dal timore di una rivolta della milizia fascista, ma non dalla paura per la reazione che avrebbe suscitato in Hitler. Fu quella paura a impedire a lui e al nuovo capo della dittatura militare che avrebbe posto il regime in liquidazione, Pietro Badoglio, di denunciare preliminarmente il Patto d’acciaio con lo Germania prima di rendere pubblica la stipula dell’armistizio. Soltanto così la monarchia avrebbe potuto sventolare la bandiera del nuovo riscatto nazionale che, nella peggiore delle ipotesi, avrebbe distratto molte delle truppe tedesche che si accingevano a contrastare la risalita degli Alleati dal Sud Italia.

L’idea di sostituire la dittatura politica di Mussolini con quella militare di Badoglio si sarebbe rivelata disastrosa non soltanto per l’Italia ma anche per la stessa monarchia, perché quel Generale del vecchio Piemonte sabaudo, bolso e pelato – tutta furbizia contadina – che aveva spudoratamente fornicato col fascismo dal quale aveva ricevuto titoli nobiliari, cariche e tanti soldi, non era neppure fisicamente idoneo a suscitare entusiasmi patriottici nel popolo italiano. In quel compito sarebbe riuscito sicuramente meglio il Savoia meno compromesso col passato regime, ovvero il principe ereditario Umberto, perché sia il re che Badoglio erano figli della concezione politica dell’Ottocento e, perciò, inadatti a fronteggiare eventi che già preludevano a un assetto mondiale nuovo e che essi non potevano neppure immaginare tanto erano arretrati.

Il re, se voleva salvare veramente il Paese e non sacrificarlo alla sopravvivenza di una malvissuta monarchia, all’indomani del 25 luglio del 1943 non avrebbe dovuto nominare un residuato bellico come Badoglio, ma il rappresentante di una nuova generazione politica capace di confrontarsi con i vincitori senza avere sulle spalle il peso del proprio passato. Visto che siamo in Italia dove si equivoca su tutto, giova ribadirlo ancora una volta: senza se e senza ma, siamo contro ogni tipo di dittatura bianca, rossa o gialla che sia! Tuttavia, non possiamo fare a meno di rilevare il fatto che la dittatura fascista finì per volontà di quei gerarchi che seppero anteporre la salvezza del Paese alla loro fede politica, consapevoli di stare a rischiare la vita. Cinque di essi, infatti, vennero processati da un tribunale della effimera repubblica di Salò e fucilati l’11 gennaio del 1944.

Insomma, ci voleva un regime onnivoro, sempre pronto a riciclarsi senza mai cambiare niente, refrattario alla virtù del merito e del dovere, incapace d’interpretare l’autentica volontà popolare come questa pseudo-democrazia che abbiamo messo in piedi nel 1946, per conferire una qualche dignità perfino ad alcuni capataz del fascismo. Complimenti alla pseudo-democrazia e buon 25 luglio!

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