È bastata qualche melensa banalità proferita dall’interessato per far gridare allo statista, all’uomo che salverà il Pd dalla dissoluzione, insomma un novello Draghi. Ebbene, per quanto strano possa sembrare stante la nostra premessa, ci accodiamo volentieri a questa visione: Letta, probabilmente, sarà davvero il Mario Draghi del Partito democratico, ma per ragioni diverse da quelle che vanno sbandierando i suoi sostenitori, che nel partito non sono neppure moltissimi
– Enzo Ciaraffa –
Il falegname, che fino all’altrieri ha evitato che si sfasciasse la poltrona da segretario del Pd di Zingaretti, è stato Giuseppe Conte, mentre il mastice per tenercelo ben saldo sopra è stato il terrore per il ritorno alle urne della coalizione grillo-piddina che, certa di una batosta elettorale, giustificava le repentine, paradossali giravolte politiche con la necessità d’impedire alle “destre” di andare al governo. Una necessità che, in verità, era tutta loro perché, stando ai diversi rilevamenti statistici indipendenti, se andassimo a votare domani, il Centrodestra unito rastrellerebbe il 50% dei consensi. E non reggeva neppure l’altra sbandierata esigenza politica di non fare eleggere il prossimo presidente della repubblica da Salvini & C., dal momento che all’elezione di colui che abiterà il Quirinale dopo Mattarella parteciperanno anche i delegati delle Regioni che, a schiacciante maggioranza, sono governate dal Centrodestra con il quale bisognerà fare comunque i conti.
Ergo, non erano esigenze politiche, ma la paura di perdere le poltrone e i soldi del Recovery Fund da gestire, che ha tenuto insieme la maggioranza che ha sorretto Giuseppe Conte fino a un mese fa, nonostante non riuscisse a venire a capo della pandemia e fosse incapace di stilare un decente Recovery Plan e un concreto piano di vaccinazione. Sicché Mattarella ha pensato bene d’imporci, in nome del covid-19 e dei soldi in arrivo da Bruxelles, quello che secondo lui era il male minore, ovvero l’ex presidente della Bce Mario Draghi. Questi, però, non appena arrivato a Palazzo Chigi, ecumenicamente accolto dal Parlamento, dal potere economico e dai media, ha inguaiato sia il Pd che i Cinque Stelle i quali hanno dovuto ingoiare, e fare ingoiare ai loro sostenitori, il rospo del governo assieme a Salvini e a Silvio Berlusconi. Sicché i Cinque Stelle hanno avuto una specie d’improvvido sussulto d’identità e, com’era prevedibile, si è sfasciata la poltrona di segretario del Pd di Nicola Zingaretti non essendo più il suo “falegname” a Palazzo Chigi.
Infatti, a distanza di neppure un mese dall’inizio dell’era Draghi, Zingaretti si è dimesso con modalità e parole che mai si erano sentite da un segretario del Pd, l’ottavo in quattordici anni, che ha occupato la poltrona che fu di Togliatti e di Berlinguer. Ma, a parte la sua mediocre caratura politica, forse il problema di Zingaretti e di quelli che lo hanno preceduto in questi ultimi anni era proprio in questi due riferimenti storici, perché se Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer incarnarono, rispettivamente, il primo l’ortodossia, il secondo il distacco graduale da Mosca, lui non è riuscito ad incarnare neppure i suoi stessi pensieri.
Si pensi, ad esempio, all’alleanza tattica e di comodo col M5S che, nonostante i suoi ripetuti “Giammai con i Cinque Stelle!” fino al giorno prima di convolare a nozze con Di Maio e con Grillo, si è poi trasformata in alleanza strategica definitiva senza, però, riuscire a coinvolgere le diverse anime del partito, senza sapere chi fosse il condottiero capace di tenere in pugno truppe così variegate e anche di scarso valore. Oddio, bisogna dire che non era facile per la statura politica di Zingaretti tenere ben salde in mano le redini di un partito-frattaglie dove si agitano ex Dc, ex socialisti, ex comunisti, ex repubblicani, ex radicali… insomma ex di ogni ideologia politica e coerenza. Sicché, definire in questo momento il Pd un partito allo sbando è eufemistico. Ecco, allora, la pensata di chiamare in soccorso Enrico Letta, il trombato da Renzi nel 2014.
Mentre scrivo, infatti, l’assemblea del partito ha affidato a Enrico Letta la poltrona di segretario. L’interessato ha già fatto sapere che ha accettato “…per amore della politica” e amenità di tipo zingarettiano giusto per dimostrare, per l’ennesima volta, l’assunto di Tomasi di Lampedusa secondo il quale in Italia si fa sempre finta di cambiare tutto per non cambiare niente in realtà. Sono bastate queste melense banalità per far gridare al grande leader, al trascinatore delle masse, all’uomo che salverà il Pd dalla dissoluzione, insomma – fatte le debite proporzioni – a un novello Draghi in versione nazionalpopolare. Ebbene, per quanto strano possa sembrare stando le mie premesse e riserve mentali, mi accodo volentieri a questa visione: Letta sarà davvero il Mario Draghi del Partito democratico, ma per ragioni diverse da quelle che vanno sbandierando i suoi sostenitori che, poi, nel partito non sono neppure moltissimi nonostante l’unanimismo di queste ore.
Vediamo un po’… questo dell’ex governatore della Bce è un governo nato, sia in Italia che a Bruxelles, nelle segrete stanze dei palazzi della politica esautorando di fatto il Parlamento che, nella circostanza, non ha proposto al capo dello Stato il “suo” presidente del consiglio ma se lo è fatto da questi imporre, come pure buona parte dei ministri di peso. Insomma con l’arrivo dell’ennesimo calato dall’alto a Palazzo Chigi il Parlamento italiano ha perso, forse definitivamente, la prima delle sue funzioni: l’elaborazione autonoma dell’indirizzo politico da dare al governo e al Paese. E non facciamoci molte illusioni sull’ecumenismo mistico che in questo momento sta sostenendo Draghi perché, non appena inizierà il cosiddetto semestre bianco del presidente della repubblica che così non potrà più sciogliere il Parlamento, partirà una guerra per bande che ci farà rimpiangere la pax dell’immobilismo contiano.
Stessa valutazione di Letta (per questo è il Draghi del Pd) perché anche egli è un segretario calato dall’alto, imposto se vogliamo dalle necessità ma di certo non a seguito di un capillare dibattito nella base come ci si aspetterebbe da un partito che continua a professarsi di sinistra. Il congresso, se si farà, verrà dopo, per adesso la base del partito è tagliata fuori dai processi decisionali. Nonostante non abbia, al momento, il freno del confronto interno, ce la farà il nostro uomo a rimettere insieme le tante anime del Pd? Sarà capace di elaborare una strategia politica capace di sottrarsi all’abbraccio mortale col M5S a guida Conte? I segnali in questo senso non sono per niente incoraggianti visto che proprio Zingaretti ha reso organica una tale alleanza nel consiglio regionale del Lazio, senza capire che il M5S a trazione Conte è diventato una sorta di Medusa: brucia o fagocita tutto ciò che tocca.
Ma i guai e le similitudini per il Pd non finiscono qui, perché sia Letta che Draghi hanno anche ambizioni quirinalizie, ambizioni che, come essi ben sanno, potrebbero uscire a pezzi dalla rispettiva discesa in campo. Allora prepariamoci al peggior conformismo istituzionale della nostra storia, quello che “conserva” il potere invece di esercitarlo, ad un periodo se possibile anche peggiore del triennio appena passato. E questo mentre il bilancio pubblico si fa sempre più disastroso, i poveri aumentano a dismisura, sempre più imprese chiudono e la pandemia continua a non darci tregua, anche grazie a chi pensava di poterla combattere con i banchi a rotelle e con i monopattini, alcuni dei quali si annidano anche, e ancora, nel Pd. Ma in proposito il neo-leader Letta ha già dato un geniale suggerimento a Draghi per potere uscire da una tale, immane crisi: occupiamoci dello ius soli!
Ma questi ci sono o ci fanno?
E chi la sa.
Ma niente paura, al prossimo giro arriverà con la sua infallibile ricetta qualcun altro calato dall’alto e, ancora una volta, diremo che è un imbattibile drago invece di mettere mano ai randelli.
Non è così che muoiono le democrazie?
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