Un padre high-tech, come sono la maggior parte di quelli d’oggidì, sarebbe stato internato in un manicomio in una società prevalentemente agraria e semianalfabeta come quella del recente passato. Perciò, giudicare la famiglia patriarcale di un tempo con i canoni etici ed estetici di oggi è una grande fesseria, la stessa che commettono coloro che vorrebbero cancellare la storia del passato perché, a loro avviso, non corrisponderebbe al sentire della società del XXI secolo
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Chi scrive è nato qualche anno dopo la fine della II Guerra Mondiale quando in Italia, specialmente al Sud dove abitava, si pativa ancora la fame e dal punto di vista logistico le famiglie, checché se ne pensi oggi, erano organizzate su base sostanzialmente paritaria: il marito provvedeva al sostentamento generale e la moglie amministrava e dirigeva con un’abilità e un profitto che oggi sarebbero definiti miracolosi. Non neghiamo di avere un groppo alla gola mentre ricordiamo quel periodo, e Dio solo sa quanto vorremmo avere la possibilità di poter parlare ancora una volta con le nostre mamme e con i nostri papà, per coprirli di baci e ringraziarli per come ci hanno fatto vivere e tirati su, nonostante i tempi grami in un Paese da ricostruire con i cocci di una guerra malamente perduta. È vero, avremmo potuto ringraziarli ogni giorno mentre erano in vita e non sempre lo abbiamo fatto, ma soltanto perché pensavamo di avere tempo d’avanti, perché amavamo illuderci che essi fossero eterni.
Ebbene, con toni di grande disprezzo, quel tipo di organizzazione familiare oggi s’inclina a definirla “patriarcato”, come se le nostre famiglie fossero all’epoca palestra di ingiustizie e di sopraffazioni quotidiane. In realtà, erano soltanto organizzate secondo un criterio semplice, magari primitivo, che – e siamo i primi a sostenerlo! – non poteva e non doveva perpetuarsi visto che l’unica scelta che si offriva alle donne era quella di fare le matrone. Ma all’epoca era la stessa legge che in un certo senso favoriva il patriarcato perché, fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975, era essa a stabilire che la patria potestà fosse attribuita unicamente al padre fino alla maggiore età dei figli, senza trascurare il fatto, però, che i comportamenti e la postura dei padri di un tempo erano per la prole anche degli esempi da imitare: noi figli da grandi volevamo semplicemente rassomigliare a loro, volevamo avere il loro stesso amore per la famiglia, lo stesso rispetto per le donne, per il lavoro, per le istituzioni democratiche, per la Patria e, soprattutto, la medesima coerenza esistenziale. Oddio, c’erano delle chiaviche di padri anche allora, ma erano figure che la società emarginava, non era la regola perché essi, anche se scampavano i rigori della legge, erano comunque esposti al pubblico disprezzo e di sicuro non catalizzavano i like dei paesani.
Certo, riguardo ai vecchi rapporti intrafamiliari oggi è facile fare nostra l’espressione di quel toscanaccio di Gino Bartali “Gli è tutto sbagliato… l’è tutto da rifare”, ma siamo proprio sicuri di non stare a buttare l’acqua sporca col bambino dentro? Adesso non vogliamo addentrarci in un’analisi sociologica perché non ne abbiamo titolo, vorremmo soltanto ricordare che la struttura della famiglia è imprescindibile dalla società, sia pure in contesti storici diversi, che non sono minimamente comparabili: un padre high-tech, come sono la maggior parte di quelli d’oggidì, sarebbe stato internato in manicomio in una società prevalentemente agraria e semianalfabeta come quella del dopoguerra. Perciò, giudicare la famiglia patriarcale di un tempo con i canoni etici ed estetici di oggi è una grande fesseria, la stessa che commettono coloro i quali – non sappiamo quanto in buonafede – vorrebbero cancellare la storia del passato perché, a loro avviso, non corrisponderebbe al sentire della società del XXI secolo.
Ma, poi, con quale titolo e conoscenza ci ergiamo a giudici dei padri di una volta, delle famiglie di una volta, del cosiddetto patriarcato? L’abbiamo sotto gli occhi un tipo di famiglia moderna definita “sana” dai media, dove per anni è incubato un dramma come quello che ha avuto per protagonisti il sociopatico Filippo Turetta e la povera Giulia Cecchettin, senza che nessuno delle rispettive compagini familiari ne avesse il minimo sentore, salvo poi andare in televisione per mettersi a pontificare. Invece, ai tempi del patriarcato, i cosiddetti patriarchi che ci hanno educato, nonostante smazzassero da mattina a sera, pur non essendo supportati da una grande cultura, ci hanno seguiti, finanziati, sostenuti, cazziati quando era necessario e coinvolti nelle dinamiche familiari ma, soprattutto, ci hanno inculcato un grandissimo valore, quello che oggi manca ad adulti e giovani: il senso del limite.
Questo era il patriarcato, questi erano un tempo i patriarchi che guidavano le nostre famiglie. Ma, senza andare molto lontano, la plastica rappresentazione del disastro della funzione educativa della famiglia, della mancanza di un centro d’ispirazione etica, quale dovrebbero essere i genitori, il padre in particolare, è andato in scena a Rimini pochi giorni fa, quando la polizia locale ha fermato una ragazza che guidava l’auto in accertato stato di ebbrezza. Come si fa in questi casi, la polizia ha bloccato il veicolo, ha ritirato la patente ed ha chiesto alla giovane di telefonare a qualcuno della famiglia affinché venisse a prenderla, non essendo lei, in quel momento, in grado di guidare un’auto in sicurezza. Ebbene, quando il padre della fermata è arrivato al posto di blocco per prelevare la figlia, la perplessa polizia della città malatestiana ha dovuto bloccare anche la sua auto, multarlo e ritirargli la patente perché, non ci crederete, anche lui era ubriaco! Dei comportamenti del resto di cotanta famiglia non ci è dato di sapere. Ma possiamo ragionevolmente immaginarli.
E, in ogni caso, i patriarchi come quelli che abbiamo conosciuti da ragazzi avevano il senso della misura e del decoro, non si sarebbero mai fatti vedere ubriachi dai propri figli, né avrebbero mai alzato una mano contro una donna. E tutto ciò per una ragione molto semplice: consideravano espressione di debolezza perdere il controllo di sé. E, d’altronde, le legioni di psicologi che scendono in campo ad ogni femminicidio dicono indirettamente la medesima cosa: chi commette violenza contro un donna è sostanzialmente un debole e un insicuro. Viva il patriarcato dunque? No, viva la corretta percezione delle cose o, se volete, viva quel senso del limite che i “patriarchi” ci hanno inculcato.
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