Continua l’indecente fuga iniziata l’8 settembre del 1943

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Il “Tutti a casa” non fu la fuga collettiva dalle responsabilità del popolo italiano come s’insiste a sostenere da più parti, ma la sofferta impotenza e il disgustato distacco di un intero Paese dalla sua infima classe dirigente perfino peggiore di quella attuale. Se tale disgusto non divenne un incomponibile divorzio tra il popolo italiano e la stessa concezione di Stato, fu per la percezione emotiva di quegli uomini e donne che scelsero consapevolmente di morire nella lotta per la conquista della libertà e della democrazia, purché dalle macerie di una guerra perduta na­scesse una patria migliore di quella che ormai agonizzava

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Nella notte tra l’8 e il 9 settembre 1943 il capo del governo Maresciallo Ba­doglio, il re capo dello Stato Vittorio Emanuele III, parte della famiglia reale e circa trecento dei principali comandanti militari, scapparono da Roma per rifugiarsi a Brindisi, sotto la protezione degli Alleati che avanzavano dal Sud. Anche se sarebbe stata giustificata dagli interessati con la necessità di dovere assicurare la continuità istituzionale della monarchia e dello Stato, quella fuga avrebbe invece decretato la fine di entrambi, per un perverso effetto a catena: rimanendo senza guida, le forze armate, che dello Stato risorgimentale erano il simbolo e della monarchia il puntello, si dissolsero anch’esse in poche ore. Nella circostanza, il grottesco, anzi il quasi fumettistico fu che – come la Banda Bassotti che si era vista scoperta – i generali e il re scappavano da una parte mentre i gerarchi fascisti dalla parte opposta. L’unica differenza fu il mezzo che essi adoperarono per la fuga: i massimi vertici dello Stato scelsero una nave (la corvetta Baionetta) mentre i caporioni fascisti salirono sugli aerei che l’ambasciata tedesca aveva messo a loro disposizione per trasportarli in Germania.

Nonostante cotanti esempi di intollerabile fellonia dei vertici dello Stato, dopo l’8 settembre alcuni italiani trovarono ancora la forza ideale e morale per battersi contro i tedeschi, anche se la maggioranza del popolo, priva di armi, di disposizioni chiare e di capi militari, dovette acconciarsi a sopravvivere. Il «Tutti a casa», pertanto, non fu la fuga collettiva dalle responsabilità del popolo italiano come s’insiste a sostenere da più parti, ma la sofferta impotenza e il disgustato distacco di un intero Paese dalla sua infima classe dirigente perfino peggiore di quella attuale. Se tale disgusto non divenne un incomponibile divorzio tra il popolo italiano e la stessa concezione di Stato, fu per la percezione emotiva di quegli uomini e donne che scelsero consapevolmente di morire nella lotta per la conquista della libertà e della democrazia, purché dalle macerie della guerra na­scesse una patria diversa da quella che ormai agonizzava.

Purtroppo, neppure la lotta tra partigiani e fascisti, tra la nuova visione della società italiana e quella vecchia, sarebbe riuscita a tramutarsi in quel patto costituzionale di cui aveva urgente bisogno l’Italia, e ciò per un inevitabile paradosso: la Re­sistenza aveva contribuito ad accelerare la fine del fascismo ma non di quella classe dirigente che alla sua ombra si era formata e a lungo aveva prosperato.

Quelli che invece scelsero l’altra parte, i tanti giovani che aderirono alla Repubblica Sociale o di Salò, non lo fecero per fanatismo o per particolare dedizione a Mussolini, ma soltanto perché trovarono insopportabile rimanere alla finestra, o indecente battersi per Badoglio e per un re che ai doveri verso il suo popolo aveva preferito l’ignominia della fuga. Seppur lontani anni-luce da pulsioni revisioniste, siamo tuttavia persuasi che, a settantasei anni dalla fine della guerra, bisognerebbe trovare il coraggio di ammettere che la frettolosa, indiscriminata condanna di quei giovani non era stata sempre giusta, perché prescindeva dalla travagliata contingenza storica e dalla percezione che essi ne ebbero. Spiega bene quello che dovette essere il loro stato d’animo in quegli anni di crisi identitaria la lettera che il maresciallo della X Mas, Giulio Sebastianelli, catturato dopo un tentato sa­botaggio dietro le linee americane, scrisse alla famiglia prima di essere fucilato a Santa Maria Capua Vetere, nel casertano: «Non maledite la mia idea e il mio gesto. Ho fatto quello che ogni italiano aveva il dovere di fare; cioè togliere, a costo della vita, l’Italia dall’onta e dal disonore in cui due perversi uomini l’avevano gettata». A riflettere serenamente sopra le parole e i sentimenti che traspaiono dalla lettera di Sebastianelli, non si può non am­mettere che erano anch’esse figlie dell’emotività di un animo co­raggioso ma anche schiavo del mito della patria tradita.

In realtà l’8 settembre del 1943 accadde soltanto ciò che doveva fatalmente accadere: le tare ereditarie delle quali era affetta l’Italia post-risorgimentale l’avevano semplicemente condotta a morte per tutta una serie di concause interne ed esterne. Come dire che l’Italia malaticcia lo era sempre stata, e quello che ne era sembrato il guaritore, cioè il fa­scismo, l’aveva tenuta in vita per oltre vent’anni quasi artificialmente, come l’Aldemaro dei racconti di Edgar Allan Poe.

Purtroppo quella fuga dalle responsabilità della nostra classe dirigente iniziata l’8 settembre di 78 anni fa ancora continua, anche se questa volta i nipoti dei partigiani di ieri si sono accodati ai fuggitivi di oggi.

(Copertina di Donato Tesauro)

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